«Ha gli occhi grandissimi...mamma, è vero che anche io
li avevo così quando dovevo nascere?»
Annie, una dei dieci figli della Dottoressa Jenny Eliot,
sembrava già gelosa della piccola creatura che catturava in quel momento lo
sguardo di mamma e fratelli. Ancora doveva nascere e sembrava diventata la
personalità più importante di quella strana famiglia.
«Certo che li avevi grandi anche tu, tesoro, tutti i
cuccioli hanno gli occhi grandi. Sono dei furbacchioni i piccolini: hanno occhi
grandi per essere irresistibili, per far sciogliere di tenerezza la loro mamma»
«E io non sono più un cucciolo, vero mamma che non ti
sciogli più per me?» tornò alla carica Annie, assai preoccupata che il nuovo
membro della famiglia stesse preparandosi a soffiarle tutte le coccole, già
ampiamente condivise con gli altri otto fratelli e sorelle. Non bastava Timmy,
il fratellino di quattro anni che appena poteva se ne volava in braccio di
mamma. E per fortuna che Liza, tre anni compiuti da poco, dormiva accoccolata
sul divano per il pisolino pomeridiano ed ancora non partiva all’attacco.
«A sei anni non si è cuccioli secondo te?» le sussurrò
Mamma Jenny, sfiorandole le labbra con le proprie, in un gesto intimo ed
affettuoso ed accarezzandole i bei capelli lisci e neri.
«Allora tutti siamo capaci di fare le lagne!» Fred era
imbronciato: per un attimo aveva pensato che nove anni fossero troppi per
reclamare la sua parte di baci e carezze. Solo per un attimo. Quello dopo era
già avvinghiato al corpo della madre che per la furia affettuosa di
quell’assalto era stata costretta ad indietreggiare verso il divano.
«Piano Fred, non occorre che mi fai cadere...dai venite
tutti qui che vi abbraccio. Anche tu Alice»
Alice se ne stava con gli occhi bassi e, differentemente
dagli altri, non si era mossa.
«Alice...non credere che solo perchè hai appena fatto
quattordici anni tu te la possa svignare. Stai diventando grande ma io ho
ancora tanto bisogno di tenerti stretta, sai»
Alice si avvicinò a Mamma Jenny senza indugio: l’aveva
messa alla prova ancora una volta e come sempre sua madre non si era lasciata
sorprendere.
«Guardate, si succhia il pollice!» Timmy aveva lasciato
le ginocchia di Mamma Jenny ed era corso ad incollare le mani al vetro della vasca-incubatrice.
«Non appoggiarti al vetro con le mani, Timmy, quante
volte te l’ha detto la mamma! Restano le tue ditate, hai capito?» Johnny,
dodici anni, sembrava l’ometto di casa: in quanto fratello più grande, nulla
doveva sfuggirgli. Quale alleato fedele aveva sempre Fred, il maschietto di
nove anni: quello che diceva il primo automaticamente diventava legge per il
secondo. E la legge andava fatta rispettare.
«Sporchi il vetro e poi non si vede più niente» esclamò
quest’ultimo, afferrando l’esile corpo di Timmy e spostandolo di lato come un
sacco di patate «Anche perchè con te davanti non vediamo più niente» aggiunse.
«Oh! Tutti lì a guardare che si succhia il pollice...»
riprese Annie colta da un altro attacco di gelosia «me lo succhio anche io
allora...ecco guarda come me lo succhio...mamma! Ti sei incantata?»
«E basta Annie!» sbottò Lily, undici anni, la seconda
figlia più grande, cominci a diventare patetica, lo sai?»
«Sei una sorella perfida, non so neanche cosa vuol
dire patepica ...e poi, se
lo vuoi sapere, non è la prima volta che succhia, io l’ho visto ieri che si succhiava
lo zoccolo»
«Non ci credo» rispose Lily, incrociando le braccia.
«E invece può essere benissimo, anche Johnny si succhiava
lo zoccolo prima di succhiarsi il pollice» intervenne Mamma Jenny, come
riemergendo da una realtà tutta sua che l’aveva sottratta per qualche minuto a
quei rumorosi battibecchi.
«E’ vero, me lo ricordo» aggiunse Alice, la figlia maggiore
«e Katie succhiava un serpentello della sua testolina. Che stupida quando ero
piccola, me lo ricordo ancora di quando uno le si era annodato al collo...che
paura...mi pareva si stesse strozzando!»
«Piangevi e piangevi anche se io ti dicevo che non correva
nessun pericolo. Non lo volevi capire»
«Allora mi hai detto che era come se volessi strangolarti
con le tue stesse mani: non ci riusciresti!»
«Ho detto così?»
«Sì mamma, me lo ricordo perchè allora ho cominciato a
capire che i suoi serpenti non potevano far niente che non fosse voluto da
Katie»
«Assolutamente nulla, io infatti l’ho capito subito
che quando una delle linguette di tutto quel groviglio, mi arriva su un occhio
non è affatto per errore, vero Katie?» commentò Lily, la seconda sorella in
ordine di età ma non per questo meno
sagace e grintosa della primogenita.
Katie, sette anni, rise, facendo
ondeggiare la sua folta chioma dalle scaglie rosse e verdi, dalla quale facevano capolino due occhietti
azzurri furbissimi. In mezzo all’ammasso oscillante sulla sua testa si rese
visibile, ad un tratto, spiccando per il contrasto, un serpente rosso e giallo,
anzichè rosso e verde come tutti gli altri. Questo andò sinuosamente ad
attorcigliarsi al collo della piccola.
«Piano, così invece è pericoloso»
fu il rimprovero della mamma a David, gemello di Katie, che amava sopra ogni
cosa farle i dispetti, anche in questo molto simile alla sorella gemella. In un attimo furono un groviglio inestricabile:
mani e gambe di entrambi furono avvolti dalle spire dei lunghi serpentelli che
scendevano dalle loro teste. Un curioso gomitolo rosso, verde e giallo che si
agitava sul pavimento della vasta sala, tra mugolii di risa e dolore. Poi
giunse un «Basta!» meno benevolo di Mamma Jenny e la matassa si srotolò senza
indugio.
Mamma Jenny li guardò, godendo
della loro bellezza, di quei colori sgargianti e lucenti e di quegli occhi azzurro
ghiaccio quanto i suoi ma immensamente più belli.
Poi il suo sguardo andò ad abbracciare
uno per uno tutti gli altri.
«Siete le creature più belle del
mondo» disse, concludendo quella mistica carrellata.
«Anche tu sei la mamma più bella
del mondo» aggiunse Annie, lanciandole affettuosamente le ali al collo.
Mamma Jenny accarezzò le sue
morbide penne nere e grigie, lisciandole teneramente, e, mentre le guancette di
Annie si strusciavano sul suo viso, disarcionandone lievemente gli occhiali dal
naso, la mente della Dottoressa Jenny Eliot si perse ancora una volta lontano.
Lontano eppure vicino. Anzi vicinissimo:
appena al di là della porta blindata alla quale solo lei aveva accesso con
tanto di codice segreto, scrupolosamente tenuto nascosto ai trentotto
ricercatori del ‘Biodiversity Research Center’. Questo il nome del laboratorio
di biologia genetica presso il quale vivevano, da lei voluto, creato e diretto
e situato in una zona ancora intatta della foresta amazzonica.
‘Sei la mamma più bella del mondo’.
Quella frase innocente e quasi banale sembrava, con poche pennellate da
artista, dipingere l’incredibile affresco della sua vita. Un capolavoro. Ed un
capolavoro di assurdità.
Lei, la Dottoressa Jenny Eliot, ricercatrice
statunitense, tra i massimi esponenti nel campo della biologia genetica a
livello mondiale, una celebrità nel settore, quasi un guru per studenti e
ricercatori, non era mai stata né la più bella, né semplicemente bella. Nemmeno
da giovane, figuriamoci adesso, quando l’età le stava regalando giorno per
giorno una ruga in più e soprattutto tanta, tanta stanchezza. A sessantanove
anni sarebbe potuta essere senz’altro più florida, ma la natura, come non era
stata prodiga verso di lei di bellezza, forse non lo sarebbe stata nemmeno di
longevità. Certamente, da giovane era stata assai più energica e meno
sgradevole nell’aspetto: pallida e minuta, gambe leggermente arcuate, una rada
capigliatura che tempo addietro era stata bionda, un volto regolare ma del tutto
insignificante, aveva occhi piccoli di un limpido azzurro ghiaccio e come il
ghiaccio erano sempre stati freddi nell’osservare persone e cose. Se ne stavano
al di là di quelle lenti che portava da sempre, per niente scontenti di quella
spessa barriera tra loro e il mondo. Un mondo di gente stupida, cieca e
incosciente che allegramente danzava sul corpo straziato di una Terra morente.
Forse gli unici ad avere un po’ di cervello se ne stavano al di là della porta
blindata. Li aveva scelti accuratamente i suoi collaboratori, per competenza, serietà
ma anche per quella rara caratteristica di saper guardare oltre il proprio
naso. Forse se ne poteva avere anche un po’ di rispetto. No, non si era mai
sentita bella. E nemmeno donna. Si era mai vestita qualche volta con
l’intenzione di apparire seducente? Ricordava piuttosto di aver coperto mille e
mille volte i propri indumenti col camice bianco per scomparire in laboratorio
ad osservare vetrini e trafficare con provette. Era così: di tutti gli
indumenti indossati in una vita non ne ricordava nemmeno uno che le avesse
fatto provare qualcosa davanti allo specchio. Ad essere onesti le sfuggiva persino il colore di quello che portava sotto
al camice in quel preciso momento.
Impegnata a fare della sua esistenza
una corsa al risultato, i risultati importanti della sua vita avevano riguardato
unicamente biologia, genetica, biodiversità ed ecosistemi. Le semplici tappe di
una vita normale non l’avevano mai riguardata. La scoperta dell’amore? Banalità.
Della maternità? Roba da casalinghe.
Eppure c’era qualcuno che la vedeva
la più bella del mondo. E soprattutto la vedeva mamma. Mamma di nove figli, tra
breve dieci, partoriti non dal suo ventre ma dal suo cervello. Come Minerva dal
cervello di Giove, come Adamo ed Eva dalla mente di Dio.
Come Dio. Mamma come Dio. Perchè
quelle creature lei non le aveva subite nel proprio utero, frutto di una casuale
combinazione di geni. La Dottoressa Jenny Eliot quei geni li aveva saputi
combinare alla perfezione al fine di creare un’umanità dotata finalmente di un’istintuale capacità di
integrarsi con la Natura.
Ispirarsi alle creature mitologiche
metà uomo e metà animale, questo era stato il vero tocco d’artista, creature
straordinarie, appartenenti al passato e presaghe di futuro. Un futuro che lei
stessa si accingeva a creare.
Mamma come Dio. Seppure incredibile
in fondo questo era l’aspetto meno estroso di quella sua stravagante maternità.
Ciò che doveva realmente stupire era che la Dottoressa Jenny Eliot era
diventata mamma per davvero. Mamma dentro. Contro ogni sua più fantasiosa
previsione, quelli erano figli veri perchè come figli li amava, non come
esperimenti ben riusciti.
L’amore dal quale era sempre stata
distante, che aveva sempre guardato con diffidenza e superiorità, era giunto
inaspettato a spiazzarla, imponendosi come la scoperta più grande della sua
vita. Li amava davvero e lo sentiva non
solo nell’animo ma perchè adorava assaporarne il profumo, accarezzarne la pelle
o piume o pelo o scaglie che fossero, guardarli piangere ridere e crescere.
Giorno per giorno, stupendosi di ogni più piccolo cambiamento nei tratti del viso,
del corpo, dell’animo: ogni giorno le penne di Annie meno soffici ma più solide
e corpose, ogni giorno le quattro zampe equine di Alice più forti e slanciate...
Trasaliva al pensiero che, seguendo
quella corsa cieca del suo cervello, avesse rischiato di lasciarsi indietro tutto
questo. Ma oltrepassato il traguardo aveva ottenuto il premio dei premi. Premio
che non richiedeva alcuna corsa, ma pazienza.
La mamma più bella del mondo! Se
mamma e bella dovevano apparire assai curiosi nel suo caso, la parola mondo
toccava addirittura il vertice della bizzarria. Il mondo: che ne sapeva Annie
del mondo, che ne sapevano Alice, Johnny, Lily, Fred, Timmy, Katie, David, e Liza. Che ne avrebbe saputo la piccola
creatura che ancora doveva nascere?
Cos’era per loro il mondo? Che ne
sapevano loro del mondo? Non avevano mai avuto alcun contatto con esso.
Il mondo per loro non poteva essere
che i quindici ettari di foresta amazzonica preservati dal disboscamento incontrollato
che giungeva quasi a lambirlo. Il mondo per loro era fatto da piante, fiori,
animali e da un unico essere umano: lei stessa. I figli suoi non erano esseri
umani, tutt’altro, chiamarli umani le sarebbe suonato come un’offesa mortale. E
lei se n’era ben guardata dal parlare di quella specie perversa e ormai
destinata all’estinzione. Aveva anche evitato accuratamente di dichiarare la
loro esistenza appena al di là della porta blindata.
Bisognava riuscire a non parlare di
molte cose, eludere molte delle loro domande e fare della parola perchè un termine di cui non abusare affatto, una
materia esplosiva da trattare con cautela. Non era facile, un po’schizofrenico
forse, ma era come vivere in una magnifica favola.
Nulla di umano avrebbe dovuto
contaminare l’intatta innocenza delle loro coscienze e conoscenze: quanto facile
sarebbe stato offrire esempi sbagliati, inganni e tentazioni che avrebbero
impedito loro di svilupparsi secondo la perfetta natura di cui lei stessa li
aveva provveduti. La tecnologia, quella brutta bestia, ad esempio, era qualcosa
da cui dovevano stare assolutamente alla larga. Con la tecnologia l’Uomo aveva
creduto di diventare più potente della Natura stessa. E si era scavato la fossa.
Nella vasta sala in cui Jenny Eliot accoglieva i suoi figli, infatti, non c’era
una televisione, un computer, un telefono e nemmeno un orologio. Aveva fatto
sparire persino gli interruttori della luce, nascosti dietro i mobili. Lei
stessa doveva faticare per raggiungerli e illuminare la stanza quando i suoi
figli non c’erano. E poi non ne avrebbero avuto bisogno, seguivano i ritmi
biologici delle creature diurne loro: sveglia all’alba, sonno al crepuscolo.
Anche l’impianto dell’aria condizionata era invisibile: quell’aria più fresca e
meno umida che percepivano fastidiosamente quando entravano sarebbe rimasto per
loro sempre un mistero, come lo stesso calore del sole o la freschezza delle
sorgenti. Ma quell’aria meno pesante l’aiutava a respirare meglio e non poteva
farne a meno.
La vasca incubatrice era
l’eccezione. Quell’unico elemento tecnologico troneggiava vistosamente in mezzo
alla sala. Ma era troppo bello veder
crescere tutti insieme un nuovo membro della famiglia, nessuno avrebbe potuto rinunciarvi.
Collegata ad apparecchiature dalle spie costantemente accese, tubicini e
misuratori, la vasca era una costante tentazione alle loro curiosità. Quante
volte aveva dovuto impuntarsi per non fornire a riguardo alcuna spiegazione.
Nessuna, nemmeno alla domanda più imbarazzante: perchè noi nasciamo in una
vasca e tutti gli altri animali no? Nessuna risposta, l’unica in casi del genere
era far scattare il veto su quella dannata parola: perchè.
Perchè. Paradossalmente quella la
parola che aveva accompagnato tutta la sua vita. Ma lei faceva parte di
un’altra razza, una brutta razza in estinzione.
Se aveva chiamato quell’isola di
speranza ‘Eden Project’ c’era un motivo.
«Ragazzi, tutti a nanna adesso, la
luce sulla foresta si è fatta rossa, ve ne eravate accorti?»
«Io no» rispose Annie in modo un
po’ provocatorio, mentre tutti i fratelli andavano a dare la buonanotte a Mamma
Jenny.
«Dai Annie, vieni con me, tu non ti
accorgi mai di quando la luce si fa rossa» commentò Alice bonariamente.
Annie, dopo aver scoccato
l’immancabile sequela di baci e bacetti serali a sua madre, spiccò un voletto
sulla groppa della splendida Centaura. Alice galoppò rapidamente oltre la
grande porta a vetri che costituiva l’unico loro accesso dalla casa a ‘Eden
Project’. La dottoressa le guardò allontanarsi: la lunga coda nera di Alice
oscillava nel movimento della corsa. Spiccava ondeggiando armoniosamente sul
candido mantello in un contrasto di rara bellezza. Le ricordò lo sculettare
seducente di una bella donna. Fu un pensiero che non le piacque affatto.
La sua prima figlia. Era stata
Alice a regalarle le emozioni più intense: la gioia per la riuscita di quel suo
incredibile esperimento, poi l’inaspettato sentirsi catturata da un sentimento
nuovo, inconfessabile, e al quale alla fine era stata costretta a cedere.
Il suo primo capolavoro era
cresciuto e le sue fattezze ormai non avevano nulla del tenero puledrino che
aveva tenuto tra le braccia. Ricordava quando le lisciava il morbido pelo
bianco reggendola sulle ginocchia e quando i suoi zoccoletti disattenti
finivano talvolta con l’assestarle qualche doloroso calcetto. La sgridava
allora con dolcezza, stupendosi della propria indulgenza. Con lei, infatti,
come del resto con tutti i suoi figli, la sua voce non assumeva mai toni aspri.
Da quando Alice era nata la voce di Jenny Eliot aveva conosciuto una nuova sonorità
più dolce ed argentina. Ogni tanto rideva mentre parlava. Non lo aveva mai
fatto. Sembrava nuotasse nel miele quando stava con i suoi figli. Poi l’incanto
svaniva una volta digitata la password per raggiungere i suoi collaboratori.
Ritornava la voce di sempre, quella che tanto incuteva soggezione a chi le
stava intorno.
Come s’era fatta bella la sua
primogenita, bella da grande, bella da piccola e il cuore le si stringeva al pensiero
che la sua piccola Alice sarebbe vissuta solo nei ricordi. Veramente sciocco
anche perchè, di lì a qualche anno, quando anche Johnny, che adesso aveva
dodici anni, si fosse fatto un bel Centauro adulto, il suo ambizioso progetto
sarebbe finalmente arrivato ad esprimere tutta la sua rivoluzionaria
potenzialità.
Una colonia di creature consapevoli
ma diverse dagli uomini e finalmente in contatto profondo ed istintuale con la
natura. Creature che sarebbero sopravvissute all’Homo Sapiens, in corsa verso
l’autodistruzione. Era pur questo che l’aveva condotta ad iniziare questa sua
avventura scientifica! Grottesco pensare che, invece di attendere con ansia gli
sviluppi della sua grandiosa intuizione, si facesse più spesso cogliere da
struggenti nostalgie. O peggio da tentazioni sentimentali inconfessabili:
possibile infatti che il suo pensiero principale non fosse quello di verificare
la possibilità riproduttiva delle proprie creature bensì quello di coccolare il
pelo morbido del suo primo nipotino?
Chissà se sarebbe mai arrivata a
vederlo un nipotino. Forse quella vita di sacrifici, di lunghe nottate a cercare,
studiare, sperimentare le avevano mangiato un po’ alla volta ogni stilla di
linfa vitale. L’aveva bruciato tutto insieme il patrimonio delle sue energie in
un unico grande falò ed ora non le restavano che tiepide ceneri. Quanto le
restava da vivere? Nella più rosea delle previsioni dieci, quindici anni. Anni
nei quali avrebbe dovuto lavorare senza risparmiarsi per popolare il mondo
della maggior varietà possibile di creature perfette. Uno sbattere d’ali
interruppe quelle riflessioni. «Annie, ancora qui? Stavo chiudendo la porta a
vetri, non vedi? Stai attenta, amore mio, se arrivi così di corsa magari non te
ne accorgi e ti sbatacchi...bum!»
Annie rise di gusto.
«Non ridere sciocchina, guarda che
questo è duro anche se non si vede e ci si fa male sai»
Annie s’interruppe di colpo e
guardò Mamma Jenny con improvvisa serietà. «Mamma, perchè non dormi con noi,
non mangi con noi, esci quando il sole è alto e te ne vai via quando scende di
là dagli alberi?»
Tutto questo le era arrivato tutto
su un colpo dalla bocca di quel pulcino nero e bianco. Nessuno dei suoi ragazzi
le aveva mai fatto una richiesta simile. Non avrebbe dovuto dire quelle cose,
non avrebbe dovuto domandarsi perchè, credeva di averli abituati. Le dispiaceva
che l’avesse fatto: possibile che non si fosse ancora convinta che era così e
basta. E soprattutto che non c’erano spiegazioni da dare. Mai. In questo modo
li aveva cresciuti ed educati. Si chiede mai una pecora perchè bruca l’erba? La
bruca e basta. Con le troppe domande l’Uomo s’era scavato la fossa.
«Perchè non resti, almeno una
volta, resta»
A quelle parole Jenny Eliot si
sentì confortata, non si trattava del mal di conoscere. Se quello era solamente
il frutto di quell’attaccamento così forte nei suoi confronti, nessun problema,
anzi.
«Non posso amore mio, alla sera la
porta va chiusa e io devo restare qui, non si può fare diversamente, credimi.
Hai mai chiesto al Sole perchè sbuca dagli alberi tutte le mattine?»
«No, perchè lo fa per darci luce,
altrimenti farebbe sempre buio»
«Non gli domanderesti mai di
dormire due giorni, vero?»
«No, gli chiederei di star sveglio
due giorni!» Annie rise. Risero entrambe, era proprio simpatica quella sua
piccola Arpia. Simpatica ed inquietante.
L’umidità appena fuori della porta
a vetri sembrava un muro da tagliare col coltello. Annie respirò a pieni polmoni
quell’aria pesante, sentendosi molto più a suo agio che all’interno di quella
zona più fresca e secca nella quale la mamma spariva ogni sera fino a quando
l’indomani il sole si faceva alto, lasciandola ogni volta con un vuoto profondo
da riempire con mille domande.
NOTTE DI FOLLIA
La Dottoressa Jenny Eliot non aveva
affatto sonno. Quella sua piccola Arpia l’aveva turbata, l’aveva turbata
soprattutto il suo sguardo. Diverso da quello degli altri. Con una luce
particolare in quegli occhi azzurro ghiaccio. Nient’altro che la sua stessa luce.
Una volta chiusa la saracinesca
della grande porta a vetri, si fermò per qualche istante a controllare le
apparecchiature della vasca-incubatrice dove il piccolo Fauno dormiva beato,
fluttuando nel liquido amniotico artificiale.
Non aveva ancora un nome. Era tempo oramai di pensarci seriamente
assieme agli altri membri della famiglia. Si sarebbero ritrovati nella sala,
chi inginocchiato sugli zoccoli, chi
avvolto alla poltrona, chi aggrappato
con gli artigli alla spalliera del divano ed avrebbero discusso fino allo
sfinimento prima di arrivare ad una decisione comune.
E la prossima sfida? Il pensiero la
stuzzicava come nessun altro: un altro figlio, una nuova vita e una nuova creazione.
Era tempo di cominciare a farsi un’idea, a concepire nella sua mente il
prossimo essere straordinario al quale avrebbe dato vita. Di una cosa era certa:
non avrebbe avuto ali. Ali mai più. L’aveva fatto una volta un errore simile,
aveva immaginato il rischio ma era stato più forte di lei ed alla fine era nata
Annie. Annie con quella luce negli occhi. E le ali.
Naturalmente, dopo di lei, l’errore
purtroppo andava ripetuto. Così come aveva fatto dopo la nascita di ogni sua
femmina doveva necessariamente dar vita anche ad un Arpia maschio per
assicurare il futuro di quella meravigliosa popolazione che avrebbe abitato la Terra senza
devastarla.
Andò nella sua camera da letto,
alla quale si accedeva direttamente dalla sala con l’incubatrice. Ma non aveva
alcuna intenzione di coricarsi. Quella sera non si sentiva affatto stanca.
Provava un’eccitazione incontenibile, un fermento interno che trasmetteva energia
ad ogni fibra del suo corpo, rivitalizzandolo.
Si sedette in poltrona e con la
mano andò a colpo sicuro dentro il primo cassetto del comodino. Un libro.
La luce calda e raccolta di
un’abat-jour rendeva quell’angolo molto intimo e caro. L’angolo magico nel quale
erano stati concepiti tutti i suoi figli.
Le pagine erano ingiallite ma i
bordi non erano affatto né slabbrati, né spiegazzati, come se le innumerevoli
volte in cui aveva girato e rigirato quelle pagine le sue mani si fossero mosse
leggere come carezze. Lei era bellissima tra le onde azzurre, i capelli pure
azzurri e la sua coda elegante e voluttuosa. Quanto avrebbe desiderato una sirena,
era da sempre che pensava ad una sirena. La sirena della prima pagina. La sua
mano ne sfiorò il bel viso, un disegno anni cinquanta un po’ stucchevole ma che
aveva fatto impazzire sicuramente anche molte sue coetanee. Perchè anche lei
era stata bambina e come ogni bambina aveva nutrito i suoi sogni di immagini
speciali, destinate ad imprimersi per sempre nella memoria e a diventare icone
dei desideri. Ciò che non aveva mai più dimenticato la bambina di sessant’anni
prima erano proprio quelle antiche creature metà uomo e metà animale di quel
libro fatale.‘Miti greci’ recitava il titolo in leggero rilievo, dove l’oro
delle parole si distingueva appena e solo intorno ai bordi. Il suo più caro
ricordo d’infanzia e la radice del suo sogno più grande.
La suggestione di quei racconti, di
quelle creature ineffabili, non l’aveva mai abbandonata, trasformandosi lentamente
in venerazione per quel popolo sorprendente che aveva saputo dare origine a
fantasie così seducenti. Il pensiero di
dare una vita reale alla potenza immaginativa di quella Grecia Antica,
immortale nell’arte e nel pensiero, era stato per lei un vero innesco
all’esplosione del suo ambizioso progetto. Quasi una tentazione di per se
stessa.
Per l’ennesima volta accarezzò
l’idea di far vivere l’azzurra creatura della prima pagina, il piccolo lago
sorgivo della riserva sembrava lì ad attenderla ormai da anni.
Si riscosse da quel suo egoistico
sogno ad occhi aperti. I suoi figli non dovevano vivere da prigionieri!
Dovevano godere di tutta la loro libertà in quel vasto territorio intatto che
era la loro casa. Un piccolo lago avrebbe avvilito la gioia di vivere di una
figlia con coda da pesce, privandola della libertà di cui aveva diritto. Niente
sirena prigioniera, meglio altre forme di vita, forse non così affascinanti ma
a cui potesse offrire pienamente quel paradiso di verginità, in una condizione
di assoluta e selvaggia libertà. Almeno in apparenza: mai i suoi figli
avrebbero dovuto accorgersi della fitta recinzione dissimulata attraverso siepi
e rampicanti che avrebbe impedito loro ogni contatto con l’esterno. Nessuno
avrebbe mai parlato loro di ciò che stava fuori e nessuna ragione avrebbe mai
dovuto spingerli ad oltrepassare il limite di ‘Eden Project’. I quindicimila
ettari circa di foresta erano racchiusi all’interno della ben più vasta riserva
di proprietà esclusiva del ‘Biodiversity Research Center’. Aveva fatto erigere
quella recinzione prima di iniziare gli ‘esperimenti’ giustificandone la
costruzione con l’esigenza di realizzare una riserva integrale alla quale solo
i ricercatori potevano avere accesso.
Girò bruscamente e non senza
rimpianto la prima pagina. L’immagine che apparve, quella del Centauro, ebbe il
potere immediato di ridarle serenità, così come quella dell’Echidna, la pagina
dopo. Corpo di serpente. Spaventosa e
affascinante ispirava con le sue spire un’irresistibile tenacia e volontà. L’immagine della Medusa invece la fece
sorridere. La sua mente corse infatti a quel gomitolo verde, rosso e giallo che
appena qualche ora prima rotolava sul pavimento. Addirittura due gemelli,
un’impresa straordinaria. Poi la sua espressione si fece più tetra, ricordando
perfettamente che, alla pagina seguente, sarebbe apparsa l’Arpia. Annie, la sua
piccola adorata affettuosissima Annie. Annie che l’abbracciava mille volte al
giorno con le sue calde penne grigie e nere. Annie dalle ali forti. Era lei che
gliele aveva fabbricate quelle ali possenti per librarsi libera in volo ed era
lei stessa che le impediva di usarle. Perchè gliele aveva fatte quindi?
Sette anni prima, seduta su quella
stessa poltrona, avrebbe potuto girare pagina come da sempre faceva con la Sirena
dei suoi sogni. Ma non l’aveva fatto.
Poi apparve l’ultimo dei suoi
successi: Il Fauno. Liza era troppo simpatica, quando si intestardiva per imboccare
sua madre coi fiori di cacao. «Sono belli i fiori rosa» e a quella piccola che ostinatamente glieli
sventolava davanti rispondeva paziente «belli ma...grazie non li mangio,
tesoro. Anche a me piace il rosa, davvero, ma le cose che mangia mamma non sono
quelle che mangiate voi». Tra breve anche Liza avrebbe avuto il suo simile.
Liza e...? Anche questo era un piccolo problema da risolvere.
Sorrise tra sé e girò ancora una
volta pagina. Era tempo di concepire una nuova vita.
Difficile dormire in quella notte
d’amore e di follia. Jenny Eliot uscì dalla sua stanza con in mano il suo prezioso
libro e si diresse nella stanza situata al capo opposto della sala. Passò
davanti all’incubatrice col piccolo Fauno che attendeva ancora un nome. Avrebbe
voluto stringerlo a sé. Un po’di pazienza, ancora due settimane e sarebbe stato
tra le sue braccia.
Il suo laboratorio personale
l’accolse con il calore emanato da microscopi, congelatori e vaschette per elettrolisi,
oggetti del piacere, cari e importanti quanto gli arnesi per l’artigiano.
Arnesi per plasmare l’argilla a immagine e somiglianza dei suoi sogni più
luminosi. Lei non era un artigiano. Lei era Dio.
Se Dio aveva creato gli uomini
dall’argilla, la sua argilla sarebbero stati i filamenti di DNA sapientemente organizzati
in un embrione dalle caratteristiche perfettamente corrispondenti al progetto
genetico ideato dalla sua mente. Ci sarebbe voluto un anno, due al massimo per
approntarne uno nuovo. Ora che aveva le idee chiare avrebbe iniziato le
ricerche precisamente in quella notte.
La stanza era tutta bianca, bianche
le pareti, i mobili, le attrezzature, bianche come la sua seconda pelle, il camice
che si portava appresso da una vita. In quel piccolo ambiente adibito alle
ricerche non mancava nulla per poter effettuare quegli studi di cui mai nessuno
sarebbe venuto a conoscenza. Ben diversi da quelli portati avanti nel
laboratorio ufficiale del ‘Biodiversity Research Center’. Non che quel progetto non l’avesse
interessata un tempo, era stata lei a dargli vita diciotto anni prima, quando,
sfruttando la sua indiscussa fama e il suo patrimonio personale, ne aveva
iniziato la costruzione. Era convinta della necessità di ottenere una
campionatura completa dell’immenso patrimonio genetico appartenente a flora e
fauna dell’Amazzonia e dell’urgenza di intraprendere questi studi prima che gli
uomini devastassero irrimediabilmente la ricchezza di quell’ambiente unico.
Incendi e taglio degli alberi indiscriminato avvenivano infatti giornalmente
anche poco distante da quel fazzoletto di foresta ancora vergine. Ingordi
allevatori di bestiame, fazenderos senza scrupolo e senza cervello si
mangiavano giorno per giorno intere fette di territorio per dare spazio a vaste
distese di erba da pascolo. Sale da pranzo ben imbandite per quegli ingordi
bovini che con i loro escrementi non facevano che liberare metano verso
l’immensa serra in cui l’uomo andava incoscientemente imprigionando i raggi
solari. In buona compagnia di quell’anidride carbonica emessa da industrie e
motori, il cui propagarsi non veniva certo aiutato da quella massiccia strage
vegetale. Era riuscita a vederli in faccia più di una volta quei campioni di
grettezza, attraversando le zone limitrofe della riserva. Li aveva squadrati
dalla jeep con i suoi occhi di ghiaccio. Il loro bestiame si nutriva sul
cadavere della foresta, senza alcuna coscienza che, per far crescere ogni
foglia di quell’erba, s’era posto fine all’esistenza di una specie.
Non le facevano bene quelle uscite
nel mondo degli uomini, tornava carica d’odio e di ansia e diventava intrattabile.
Doveva pretendere di più dai suoi devoti collaboratori, farli lavorare giorno e
notte, per vincere quella lotta contro il tempo.
Alla fine aveva risolto con
l’uscire sempre più di rado perchè l’incontro faccia a faccia con la Stupidità
Umana avrebbe rischiato di distruggerle la salute. Preferì a quel punto
rimanere nella sala dei bottoni, mobilitando ogni possibile risorsa e influenza
personale per mettere i bastoni tra le ruote a quelle canaglie che assediavano
la riserva dai territori confinanti. Un bello scherzo quando promosse a livello
internazionale l’iniziativa: ‘Adotta una foresta’. Ottenne un tale successo che
ora il laboratorio si trovava circondato da ben trentamila ettari di proprietà
privata in costante aumento. Che si tenessero alla larga dalla sua riserva i
malintenzionati! Era già successo di far passare guai seri a qualche incauto
bracconiere che mai avrebbe immaginato con chi aveva a che fare. Le piccole
soddisfazioni della vita.
Ci aveva creduto davvero. Per anni.
Ma, nonostante il successo e
l’ottimo lavoro che conduceva grazie anche alla sua vasta equipe di collaboratori,
alcuni dei quali fidatissimi e di vecchia data, il suo sogno si infranse.
Aveva pensato troppo, lo diceva
sempre ai suoi figli. E pensandoci troppo non era riuscita più a crederci. Si
era persuasa al contrario che tutti quegli sforzi non sarebbero stati utili ad
alcuna generazione futura, visto che, con ottime probabilità, non ne sarebbero
restate ancora molte. Il mondo andava verso un tracollo definitivo: lo testimoniavano
i dati. A quelli, da scienziata qual era, doveva arrendersi. Troppe voci
inascoltate, interventi tardivi, inutili, dannosi: in quel mondo di idioti nel
quale era costretta a vivere, l’intelligenza umana al più alto livello
dimostrava di venire utilizzata sostanzialmente nella direzione sbagliata. Un
treno senza rotaie, una nave senza bussola, un’auto senza freni. Nei momenti di
più cupa tristezza vagheggiava la costruzione di una macchina per misurare la
smisurata stupidità umana per la quale a decidere del mondo sarebbero stati solo
gli idonei. Ma il suo campo era la genetica e poi, con tutta probabilità, uno
‘stupidometro’ non sarebbe servito a molto. Gli stupidi avrebbero continuato a
dominare il mondo, una regola implicita del comportamento umano, inconfutabile
come la più accreditata delle leggi di fisica.
Così, ad un tratto, il tempo a
disposizione per i ripensamenti le apparve esaurirsi più in fretta di quanto aveva
creduto. Non c’era che da seppellire con l’Uomo anche i suoi bei progetti.
Delusa ed abbacchiata che una struttura del genere stesse lavorando tanto bene
quanto inutilmente rischiò una seria depressione e fu tentata di abbandonare tutto.
Fu proprio raccogliendo gli oggetti cari con l’idea di ritornarsene negli Stati
Uniti che quel ‘Miti greci’, compagno inseparabile della sua infanzia, tra i
pochi oggetti che avevano avuto il privilegio di essere portati fin lì per
ricordarle il suo passato, finì tra le sue mani imponendosi con la forza di una
profezia. Fu una folgorazione: canalizzò allora tutte le sue energie in un’idea
folle e geniale: il ‘Biodiversity Research Center’ sarebbe diventato la
facciata altisonante di un altro progetto, ben più convincente e finalmente
definitivo: ‘Eden Project’. Salvare
l’Umanità gestendone l’esplosiva potenzialità genetica fu allora il suo nuovo
chiodo. Addolcendo la natura umana con quella parte più propriamente animale legata
strettamente all’istinto, le nuove creature non avrebbero mai più creato
problemi né a loro stesse, né alla Terra e la vita di Jenny Eliot avrebbe avuto
nuovamente un senso.
ORA DI COLAZIONE
La debole luce dell’alba filtrava
appena attraverso la lussureggiante vegetazione, così fitta che dentro il labirinto
rigoglioso di alberi altissimi, liane penzolanti e sottobosco inestricabile, la
penombra avvolgeva ancora ogni cosa. Per Annie non era un grosso problema: al
buio non ci vedeva affatto male e presto avrebbe ritrovato i suoi fratelli. A
causa di quel ritorno improvviso dalla mamma, la sera precedente, aveva
trascorso la notte da sola senza alcuno dei fratelli nemmeno nelle vicinanze.
Aveva dormito malissimo, con la testa piena di tanti pensieri. Lo diceva sempre
Mamma Jenny: più pensi e più stai male, ma era colpa sua se i pensieri arrivavano
da soli? Era ora di colazione ed ognuno dei suoi fratelli a quell’ora si trovava
sicuramente impegnato a risolvere nel migliore dei modi i problemi legati alla
propria dieta personale. Altro che brutti pensieri.
Fred e Lily si trovavano
avvinghiati con la loro possente coda di anaconda ai rami di un grande albero
di noci del Brasile. Fred a pochi metri da terra, l’altra quasi in cima,
attorcigliata agli ultimi rami tra le liane. Sotto il suo peso, il ramo prescelto
da Lily come sede della prima colazione dondolava in modo preoccupante, ma
niente paura, Lily sapeva il fatto suo. L’Echidna di undici anni, dalle
proporzioni perfette, busto scultoreo e massiccia, lunghissima coda di
serpente, se ne stava tranquilla, protendendosi verso il basso con eleganza e
sicurezza circense trattenendo il suo corpo da una caduta di quaranta metri
solamente con le ultime spire.
Annie svolazzò fino a raggiungere
il fratello Fred, tre anni più grande di lei, che se ne stava a testa in giù
con aria di disappunto.
«Fred, Lily, come va? Si mangia
lassù?»
«Non si mangia affatto, nemmeno un
coato piccolo così...piuttosto tu hai già mangiato?»
«No, sto cercando Alice, l’hai
vista?»
«Sempre appiccicate voi due!
Cos’hai da dirle che non puoi dirlo a me?»
«Cose da...femmine, va bene?»
«Va benissimo: ti chiamo Lily,
allora»
«No no grazie!»
«Credevo che Lily fosse una
femmina, veramente»
«Va bè, chiamamela...ma solo per
chiederle se ha visto Alice. Magari se dà un’occhiata da là sopra riesce a vederla
meglio di me che mi tocca star qua sotto e farmi largo tra felci e cespugli»
In quel momento ad Annie sembrò
veramente tutto assurdo: chiedeva a Lily di guardare dall’alto quando lei
stessa avrebbe potuto librarsi in aria ben al di sopra della sorella, oltre le
cime degli alberi. Sentiva nelle ali da tempo una forza ormai matura che
l’avrebbe portata chissà dove, eppure doveva accontentarsi di esercitarla
esclusivamente in ridicoli voletti da qua a là. Ma perchè Mamma Jenny continuava
a vietarle un uso decente di quella meraviglia di ali che vedeva crescerle addosso?
Ali dall’ampiezza maggiore di qualsiasi altro uccello che avesse mai visto.
«Ehi! Lily...Lily! Vedi per caso
Alice?» esclamò Fred orientando la sua voce verso l’alto.
Un improvviso sbatter d’ali, poi
una bordata di suono feroce che fece trasalire entrambi. «Sei un gran fesso
Fred! Me l’hai fatto scappare!»
«Va bè ne passerà un altro, sempre
che ti arrabbi! Annie doveva chiederti qualcosa, è qui sotto, vuoi che ti
raggiunga lassù?»
Annie lo guardò meravigliata:
ognuno dei fratelli conosceva quel misterioso divieto della mamma.
«Vuoi che ti raggiunga
arrampicando...volevo dire» specificò Fred, temendo di poter essere frainteso.
Annie fece cenno vigorosamente di no con l’indice che spuntava tra la piume
della grande ala destra.
«No, ha detto che è di fretta...la
vedi o non la vedi Alice da là sopra?»
Seguirono alcuni attimi di silenzio, nei quali entrambi si convinsero che
non avrebbero ricevuto alcuna risposta.
«E’ con Timmy e Liza, laggiù, in
direzione del sole» si degnò di rispondere alla fine Lily.
«Grazie Lily» Annie stava già per
andarsene.
«Dovresti occuparti tu di Timmy
finché non diventa grande» commentò gelida Lily tuonando dall’alto.
«E’ vero» aggiunse Fred, cercando
di assumere un’espressione saggia che addosso a lui sembrava più una maschera
comica. Ancora la voce dall’alto: «Mamma Jenny è stata chiara da sempre: la più
grande si deve prendere cura del più piccolo»
Annie alzò gli occhi al cielo.
«Pensa ad Alice, Alice è il tuo
idolo, no? Anche se non parli, ti vedo che sei lì sotto, sai» e continuò declamando
ad alta voce il suo sermone «Alice si è presa cura di Johnny fino a quando non
è diventato grande. Ed è sempre lei che si prende cura di Liza che è ancora
piccola, capisci dove voglio arrivare?»
«Non capisco...gli uccelli non mi
fanno sentire niente!» fece Annie da sotto l’albero.
«Sì sì gli uccelli...» e, scandendo
le parole ancora più ad alta voce, l’Echidna scivolò su un ramo più basso: «Tu
dovresti occuparti di Timmy come io mi occupo di Fred»
«Ti occupi di chi?» commentò
quest’ultimo, lanciando un’occhiata verso la sorella maggiore, a metà tra il
divertito e l’offeso. Quando riabbassò gli occhi, convinto di trovare sicura
approvazione in Annie, questa non c’era già più.
Alice non era in effetti molto
distante. Raccoglieva felci e rampicanti per la sua colazione e quella della
piccola Liza che, accoccolata sulle
proprie zampe da capretto, se le portava alla bocca riempiendosi le guance con
evidente soddisfazione.
«Se aspetti un attimo ti porto i
fiori del cacao, mi pare di vederli laggiù su quel tronco»
«Sì sì sono buoni sono rosa!»
«Intanto, lo vuoi assaggiare questo
philodendron? A noi Centauri piace, non so a te, assaggia e lo saprai»
«E io cosa mangio? Sono qua che
aspetto e non mangio niente! Non voglio le felci e neanche i fiori io!» La piccola
Arpia maschio sprofondò la testa di capelli neri tra le penne delle ali: un
batuffolone grigio e nero più offeso che affamato.
«Lo so, Timmy, accidenti a tua
sorella, però»
«Allora ci penso da solo, tanto mia
sorella non mi bada mai» la piccola Arpia maschio girò le ali alla Centaura, muovendo
le zampe artigliate a lunghi passi con eccessiva baldanza.
«Ok stai attento però, io ti do
un’occhiatina...non allontanarti troppo!»
«Non venirmi dietro che se no i
ranocchi mi scappano tutti»
«D’accordo Timmy non te li farò
scappare»
Annie aveva intuito da lontano che
quel fratellino digiuno non l’avrebbe messa affatto in sintonia con la sorella
grande dalla quale ormai era scritto che avrebbe ricevuto la seconda lavata di
capo della giornata e della cui compagnia sentiva, peraltro, dopo quella brutta
notte, un grandissimo bisogno. Prima che il fratellino concludesse con successo
la sua spedizione verso una promettente bromeliacea dalla cui coppa sembrava
dovesse rimediare sanz’altro una qualche rana arboricola, si decise ad agire
tempestivamente. Per terra una salamandra gialla ed arancione apparve per
incanto ai suoi occhi seminascosta tra le foglie. Era lì apposta per aggiustare
ogni cosa. In un attimo le fu addosso afferrandola coi forti artigli delle sue
zampe.
«Questa è per Timmy, poverino» disse
tra sé, sentendosi un po’ in colpa per quel fratellino al quale, in effetti,
non stava così dietro come avrebbe dovuto.
«Ehilà Timmy, guarda cosa ti ho
portato!»
«Ce la faccio anche da solo» disse,
dissimulando la contentezza per quel bocconcino prelibato che Annie sventolava
ad ala spiegata.
«Annie, dove sei andata ieri sera così di
corsa? Non ti ho più visto» s’intromise Alice un po’ freddamente.
«Sono tornata dalla mamma»
«E cosa ci sei andata a fare?»
«Volevo chiederle una cosa»
«Ho capito. Ti sei decisa e le hai
chiesto finalmente quando potrai usare le tue ali. Meglio così, almeno avrai
finito col tormentare me che tanto non posso risponderti. E cosa ti ha detto?»
«No, Alice, non le ho chiesto
questo»
«Peccato...e cosa ti è saltato in
mente di domandarle?»
«Le ho chiesto perchè...»
«Le hai chiesto perchè? Ma lo sai
che quella parola meno la dici e meglio è...scommetto che hai fatto dispiacere
alla mamma»
«Sì»
«Ecco vedi e ce n’era proprio
bisogno?»
«Sì»
«E basta con questi sì! A questo
punto raccontami tutto bene, ti vedo con una faccia...ma hai dormito stanotte?»
«Non proprio, mi venivano in mente
tanti pensieri»
«Oh siamo alle solite, Mamma Jenny
lo dice sempre che fa male pensare, che è una specie di malattia. Chi si fa
troppe domande, non vede e non sente» Alice aveva cambiato tono ed espressione,
per un attimo ebbe addirittura la fastidiosa sensazione di parlare ancora con
Lily «Tu, ad esempio, non vedi che tuo fratello ha bisogno di te? Se solo
sapessi guardare, lo vedresti eccome! E queste? Queste le vedi? Sono felci. E
questi altri? Fiori di cacao...non ne so niente di come si fa a cacciare un
topo o un ranocchio, io! Ecco, te l’ho detto, mi sono sfogata e forse adesso
riesco anche ad ascoltarti più volentieri»
Annie aprì le ali con un bel dietro
front e svolazzando scomparve nel folto della vegetazione.
CAGNOLINO
Quando Jenny Eliot uscì dal
laboratorio doveva avere un’aria davvero molto stanca, perchè ognuno dei ricercatori
del ‘Biodiversity Research Center’ la salutò mostrando lo stesso malcelato
stupore, mentre si aggirava per i banconi della sala centrale del laboratorio
senza alcuno scopo evidente. Qualcuno di loro, dopo il suo passaggio, aveva continuato
a seguirla con lo sguardo per qualche istante, curioso di vedere dove la portasse
quel pellegrinaggio a vuoto tra microscopi, scintillatori e centrifughe. Anche
al Dottor Parker, che le era stato fedele collaboratore fin dall’inizio,
quell’atteggiamento non convinceva. Se la grinta di quella donna di ferro si
era affievolita progressivamente negli anni, ancora mai l’aveva vista scivolare
dietro le schiene dei suoi collaboratori come un fantasma in camice bianco.
«Dottoressa Eliot, si sente male?»
«Dottor Parker non mi guardi in
quel modo, alla mia età ho tutto il diritto di soffrire qualche volta
d’insonnia. Lei dorme sempre come un fanciullo?»
Brad Parker, solo qualche anno più
giovane di lei, non rispose e la lasciò nuovamente alla sua carrellata spettrale.
Sapeva di doverle dare una notizia molto importante e assai positiva per la
reputazione del laboratorio e non voleva in alcun modo turbare quel momento di
entusiasmo che avrebbero a breve condiviso. Avevano vissuto insieme, giorno dopo
giorno, per tanti anni, tra successi ed
insuccessi, trepidazioni, timori, gioie e dolori e per il Dottor Parker, Jenny
Eliot significava molto più che la Presidentessa del ‘Biodiversity Research
Center’. Erano invecchiati insieme ed il fascino della sua forte personalità
era stato per lui come un faro nella notte.
«Dottoressa Eliot, desideravo comunicarle
con mia grande soddisfazione che abbiamo isolato alcuni nuovi geni dalle bacche
di guaranà. Ho ragioni per credere che il loro impiego nel campo della cosmesi
sarà rivoluzionario e penso che il ‘Biodiversity Research Center’ trarrà grandi
vantaggi da questa scoperta».
«Mi fa piacere, ci servirà per
salvare qualche altro ettaro di foresta»
Jenny Eliot l’aveva degnato solo di
un fugace sguardo, immeritatamente spento.
In altri tempi si sarebbe mobilitata
con l’efficienza di una macchina perfetta. Davvero non chiedeva chi, come,
cosa, quando? Davvero aveva deciso di continuare la sua passeggiatina
sonnacchiosa?
Il Dottor Parker continuò a
seguirla imbambolato ripercorrendo l’esatto suo percorso, soste comprese, restando
ad un paio di metri da lei, nella speranza di assistere alla comparsa a scoppio
ritardato del grande assente: quel suo entusiasmo travolgente, del quale sentiva
di non poter fare a meno.
«Che fa Dottor Parker, mi segue come un cagnolino?»
fece ad un tratto la dottoressa girandosi verso di lui. Il Dottor Parker la
guardò attonito, offeso da quel sarcasmo del quale quella donna era sempre
stata prodiga ma che il più delle volte l’aveva soltanto sfiorato. Ma la ragione
della sua profonda inquietudine era un’altra: faceva fatica a riconoscerla. Lo
colpiva l’atteggiamento incolore tanto distante dall’immagine che di lei si era
fatto negli anni. Soprattutto quella pelle livida e le borse sotto gli occhi
che sembravano essere state tinte di blu durante la notte. Era mai stata bella quella donna patita e
pallida che aveva di fronte? Forse no, ma ci fu un tempo in cui gli sembrò
tale. Molti e molti anni prima. La cosa più curiosa: continuavano ancora a
darsi del lei. Sentì in quel momento più forte che mai la tentazione di chiamarla
per nome e, proprio ora che lei gli aveva dato del cagnolino, lui avrebbe volentieri
risposto chiamandola «Jenny». In realtà sapeva che non lo avrebbe mai fatto.
«Si rilassi, Dottor Parker e mi
lasci continuare il mio giro di controllo» Proseguì imperterrita come se davvero stesse credendo
a ciò che diceva. Il Dottor Parker si sedette su uno sgabello addossato alla
parete con gli occhi a fissare il vuoto.
Due giovani ricercatrici, lavorando
su alcune colture, si erano trovate a pochi centimetri da dove si era svolta la
conversazione. Una di loro, con la coda dell’occhio, aveva seguito
l’allontanarsi del Grande Capo e del suo braccio destro.
«Due mesi fa mi sono presa una
lavata di capo solo perchè i guanti usati erano sul banco e non in cestino.
Guarda che hai avuto fortuna...» commentò sottovoce Susie Blut a Tess Prinor
che la guardava con fare colpevole.
«Ti pare che non lo sappia? Ha
rivolto disgraziatamente lo sguardo proprio nel momento in cui ho fatto il pasticcio»
«E’incredibile che non se ne sia
accorta. Eppure era bello giallo!»
«Lo so che era bello giallo»
rimarcò con disappunto Tess Prinor, finendo di pulire con una salvietta il liquido
di contrasto che aveva appena versato«Oh Dio... adesso torna...aiuto...torna»
«Ma no, non vedi che va avanti? Sai
cosa ti dico, siccome non può non aver visto quel tuo bel pasticcio, io dico
che ha fatto finta di niente. Non ha voluto mortificarti, Tess, tutto qua»
«Impegnata a mortificare il Dottor
Parker, dici?» si introdusse nella conversazione Jimmy Tred, il ricercatore a fianco,
tra gli ultimissimi acquisti del Centro. «Ma avete sentito come l’ha chiamato?
Cagnolino! Credevo fossero vecchi amici»
«Amici? Non credo che il Grande
Capo abbia molti amici e qualche volta mi meraviglio come riusciamo a restare
qua in trentotto, nel cuore dell’Amazzonia,
per rischiare di sentirci chiamare cagnolino»
«Non giudicate con troppa
semplicità ragazzi miei» commentò una ricercatrice più attempata a fianco del ragazzo
«ve ne accorgerete anche voi che ‘Il Grande Capo’, come dite voi non è quello
che può sembrare di essere, è...diciamo...molto decisa in ciò che dice e pensa.
E non lo nasconde affatto, anche se
questo a volte può risultare, a torto o a ragione, alquanto sgradevole. Anche a
me all’inizio non piaceva affatto, poi non sono mancate le occasioni per capire
quanto non fossimo affatto invisibili ai suoi occhi. Credo che se sono ancora
qui dopo quindici anni ciò sia dovuto senz’altro alla stima reciproca. Mi
meraviglia molto di più invece di come la Dottoressa Eliot non si sia accorta
che lei aveva versato qualcosa sul banco, Dottoressa Prinor. Stia più attenta
la prossima volta»
La dottoressa Tess Prinor si sentì
scoperta mentre finiva di asciugare il suo piccolo danno e tornò al lavoro a
testa bassa. Tutto sommato le era andata bene. Meglio cento volte essere
redarguita dalla Dottoressa Finnemann che dal Grande Capo in persona.
Jimmy Tred, il giovane dottore che
stava a fianco di quest’ultima, commentò:«Sa che anche io ho trovato strano il
comportamento della Dottoressa Eliot? Dottoressa Finnemann, ho dato diversi
esami di medicina prima di passare a biologia e le posso dire che la faccia con
cui si è presentata stamattina la nostra presidentessa non mi piace affatto. Il
medico ufficiale è il Dottor Parker qui dentro, no?»
«Se non desidera apparire
indiscreto, tenga le sue osservazioni per lei. E comunque sì, Parker ha esercitato
almeno quindici anni, prima di dedicarsi a questi studi...come primario di
chirurgia, le basta? Credo che la Dottoressa Eliot non abbia bisogno del parere
di un giovane biologo, caro ragazzo, se ci sono problemi non sfuggiranno né a
lei né al Dottor Parker»
Le due giovani ricercatrici a
fianco si erano alzate e con la scusa di andare a prendere del materiale stavano
dissimulando una chiacchierata complice e divertita.
«Ma lo sai Tess, che pare che
nessuno ci sia mai entrato? Top secret per tutti, per entrare ci vuole addirittura
la password che pare conosca solo lei, tra l’altro» bisbigliò la Dottoressa
Susie Blut.
«Secondo me si porta gli amici»
aggiunse sottovoce la collega e amica Tess Prinor «si porta gli amici da fuori,
magari delle specialità locali» Susie trasalì divertita e subito commentò
guardandosi le spalle:«Ma parla piano e poi...che antipatica che sei!
Poveretta...non vedi che aspetto sciupato»
«E’ sciupata, sfido, dopo una notte
di follia!» bisbigliò Tess sempre più eccitata da quell’ipotesi esilarante.
Anche Susie non riuscì a quel punto
a trattenersi da una risata a volume zero per la quale i suoi occhi divennero
tutti rossi e pieni di lacrime.
«Che stia attenta perchè a quell’età finisce
male con gli strapazzi» caricò ancora Tess porgendole un fazzoletto.
«Basta adesso, per favore, se mi
scompiscio, finisce che ci licenzia» implorò Susie a se stessa e all’amica.
«Prova un po’ a pensare però se il Grande
Capo tutto ad un tratto...»
«Ho detto basta»
«Ma mi lasci dire una cosa sensata?
Sto dicendo sul serio: cosa accadrebbe a questa bella baracca se tutto ad un
tratto...ci lasciasse?»
«Nel senso di...»
«Nel senso che facesse un colpo,
non lo so, insomma hai capito»
«E’ chiaro, il tutto passerebbe al
suo braccio destro, il Dottor Parker. Oh Dio, lo vedi? E’ lì seduto che guarda
il pavimento...
«Era in quell’esatta posizione
anche cinque minuti fa»
«Sembra distrutto anche lui
accidenti»
«Ho capito tutto» fece Tess
tornando alla carica più maliziosa che mai «Sappiamo qualcosa in più sul festino
della nostra Presidentessa, adesso»
«Tess, avevamo detto basta»
«E poi, non è mica brutto, ha la
sua età, d’accordo, ma prova ad immaginarlo giovane, adesso ha i capelli brizzolati,
ma secondo me dovevano essere di un nero corvino...»
«Uh quanta fantasia...»
«E’ fantasia quel fisico secondo
te? Da favola piuttosto! Un po’di anni fa s’intende»
«Sarebbero stati una bella coppia,
non credi?»
«Ma stai scherzando?»
«Sì»
Il dottor Parker finalmente si
decise a lasciare lo sgabello. Cercò con lo sguardo la Dottoressa Eliot finché
partì con passo risoluto verso di lei.
«Devo parlarle, Dottoressa»
«Di cosmesi?»
«No, di salute»
Jenny Eliot lo fissò gelida.
«La sua» aggiunse il Dottor Parker.
La donna gli girò le spalle senza
dire una parola ed il cagnolino si trasformò in segugio.
«Dottoressa Jenny Eliot!» fece con
un piglio insolito ed a voce alta tanto che molti ricercatori si girarono sorpresi.
Quel tono da comandante pronto a redarguire la recluta era davvero una novità
nei confronti del loro capo indiscusso.
Jenny Eliot sentì di odiarlo come
non era mai accaduto prima, gliel’avrebbe fatta pagare carissima quella sfrontatezza.
Ma in quel momento era troppo stanca per reagire ed accelerò il passo verso la
porta blindata. Dovette accorgersi suo malgrado che quei rapidi movimenti le costavano
una gran fatica ed erano accompagnati da uno sproporzionato fiatone.
«Si eclissi» intimò a Parker che
l’aveva in breve raggiunta.
«Non prima di averle come minimo
controllato il polso»
«So farlo da me, se ne vada»
Il Dottor Parker fece ciò che
avrebbe da sempre voluto fare: le prese la mano. Jenny Eliot a quel gesto rimase
imbambolata come una donna alla quale, senza preavviso, giungesse sulle labbra
un bacio inaspettato. Con sorpresa sentì che quella stretta calda e forte le
dava tutt’altro che fastidio: chi pensa non vede e non sente, lo ripeteva
sempre ai suoi figli. La sentiva e vedeva quella mano tenace ed ancora una
volta il pensiero giunse a rovinare ogni cosa. Ritrasse la propria mano con
rabbia.
«Sono il medico qui dentro» reagì risoluto
Parker «e rispondo della salute di tutti qui. Che ne direbbe se uno dei
ricercatori in presenza di sintomi sospetti si rifiutasse di farsi visitare?»
«Ma quali sintomi, Dottor Parker!
Io sto benissimo»
Jenny Eliot gli girò ancora una
volta le spalle con stizza.
«Lo sa cosa rischia?» si sentì
urlarle da dietro. Stavolta ci fu un simultaneo sollevarsi di sguardi ed un silenzio
irreale li avvolse: erano al centro dell’attenzione, lui e lei come in una
telenovela. O meglio, come in un documentario: quante volte s’era visto il
passaggio di potere dal vecchio capobranco malato al suo successore pronto a
farsi avanti e a comandare. Ci voleva un’esibizione feroce a cui tutto il
branco avrebbe assistito. Parker rivale e traditore, altro che cagnolino,
quanto ancora avrebbe dovuto schernirla dinanzi a tutti? Jenny Eliot sentì
allora fortissimo il richiamo verso il suo vero mondo, quello che aveva creato
lei stessa al di là della porta blindata. Un mondo d’amore che non l’avrebbe
mai tradita.
Digitò febbrilmente la password e
scomparve nel suo regno con la convinzione di restarci per sempre.
Brad era un grande. Lo aveva sempre saputo che
le voleva bene.
Ora che si sentiva al sicuro nella
sua tana vedeva tutto più lucidamente. La paura fa sragionare e un animale
braccato può diventare feroce. Avrebbe dovuto imparare a chiedere scusa, prima
o poi.
Un grande amico e un gran medico.
Come aveva potuto allarmarsi solo guardandola ipotizzando la sofferenza cardiaca
che l’aveva stesa a terra per ore in quella notte da incubo appena trascorsa?
Era salva per miracolo. Si era trascinata verso l’armadietto delle medicine ed
era intervenuta prontamente stringendo i
denti per il dolore che sembrava infierire sul suo petto come una violenta pugnalata.
Proprio nel momento più bello,
quello del concepimento di una nuova creatura, il cuore, forse per la grande eccitazione,
aveva fatto i capricci.
Capita talvolta, dicono, mentre si
fa l’amore.
Laura
aveva un costume da bagno di un bel bianco luminoso.
Le
stava d’incanto, all’inizio della vacanza non faceva quella figura. Ora che
l’abbronzatura di ormai dodici giorni di sole accendeva quel bianco in un
vistoso contrasto, i suoi quattordici anni appena compiuti avevano l’aspetto
radioso della giovinezza in fiore.
Aveva
appena staccato gli occhi dal piccolo portatile sul quale aveva trascorso
l’ultima mezz’ora concentrata nella lettura. Il ghiaccio della bibita che le
avevano servito al tavolo del bar del campeggio si era completamente sciolto e
lei ancora non ne aveva bevuto nemmeno un sorso.
«Bleah...aranciata
calda...» commentò con una smorfia porgendo il bicchiere alla bocca «che schifezza! Intendo la bibita, non il
tuo libro naturalmente» commentò sorridendo alla ragazza che le stava di
fronte. Anche Cecilia stava da dodici giorni in quel campeggio ma non lo si sarebbe
mai detto: la sua pelle era chiara come fosse il primo giorno.
«Adesso
continuo...» disse Laura, dopo aver fatto qualche sorso in velocità.
«Non
ho il mitra puntato, se vuoi continui in un altro momento» disse Cecilia,
guardandola dritta negli occhi.
«Guarda
che ti conosco» fece Laura rispondendo con identica intensità a quello sguardo.
Subito dopo i suoi occhi ricaddero sul piccolo monitor.
Cecilia
guardava il mare, da lontano, come aveva fatto quasi tutti i giorni di quella
vacanza a Vieste sul Gargano in un camp organizzato per ragazzi della sua età.
Aveva trascorso praticamente tutto il suo tempo lì, sul tavolino a destra
dell’accogliente terrazza, ombreggiata da una coloratissima pianta di
bougainville rosa intenso che correva sopra la sua testa. Rosa dei fiori,
azzurro del cielo, azzurro del mare, tavolino verde, monitor grigio. Erano
stati questi i colori della sua vacanza. Spiaggia e sole li aveva visti
soprattutto da lontano seduta a quel tavolino che era davvero perfetto: nel
punto più riparato dalla luce le permetteva una visione discreta delle
parole che si formavano veloci sotto le
sue dita e aprivano il suo sguardo su quello che era il luogo della sua vera,
meravigliosa vacanza. La foresta amazzonica.
Di
fatto lì a quel tavolo, una pausa del genere non se l’era ancora mai concessa,
era sempre stata china sulla tastiera e si trovava in quel momento, e per la
prima volta, a guardare pigramente i windsurf che scivolavano sull’acqua, che
cadevano e si rialzavano. Che ci fosse una bassa scogliera sul lato destro
della spiaggia lo stava scoprendo in quel preciso istante, quando non mancavano
molti giorni alla partenza. Bella vacanza. Se restava a casa, avrebbe fatto
risparmiare due soldi ai suoi genitori. D’altra parte erano stati loro ad insistere
tanto: vai, ti fa bene, stai con gli altri e bla bla bla. Mamma e papà, poverini,
le volevano tanto bene ma ancora non si rassegnavano: che la loro figlia fosse
speciale lo sapevano molto bene (e ne godevano pure) ma che ciò la spingesse a
scelte talmente estreme questo era un altro paio di maniche. Si è giovani una
volta sola le aveva persino detto il papà credendo di far colpo per
convincerla. Non occorreva che insistesse: la sua gioventù voleva spenderla
esattamente in quel modo.
Laura
leggeva avidamente sotto gli occhi di Cecilia e, se all’inizio le aveva detto
di provare imbarazzo nel sentirsi guardata, ora, con gli occhi incollati sul
monitor non faceva nemmeno più caso allo sguardo insistente dell’autrice di
quei capitoli impegnata a studiarne ogni minimo moto facciale.
L’aveva
catturata. Era dentro. Dentro alla sua storia, in mezzo ad alti fusti, liane e
rampicanti, in quel dedalo verdeggiante in cui lei stessa era riuscita a portarla
con la forza delle sue parole.
«Scintillatore?
Adesso mi spieghi cos’è uno scintillatore» esclamò d’un tratto Laura, demolendo
ogni illusione.
«Non
ne ho la più pallida idea» rispose secca Cecilia, senza l’ombra di un sorriso.
«Ho capito: l’hai cercato su google»
«Apparecchiature
laboratorio ricerche genetiche, sono venuti fuori diversi nomi, quello era il
più simpatico»
«Perfetto»
«Scusa...stai
ironizzando? Detto con più tatto: mi stai prendendo per il culo?»
«Mamma
mia, non occorre che ti scaldi tanto, Cecilia! E cosa ho detto mai?»
«Cosa
non hai detto, vorrai dire»
«Traduci»
«Ok,
andiamo con calma: in dodici giorni mi hai mai visto, ogni tanto, dico così per
caso, qui seduta a scrivere?»
«No,
me l’ha detto la bougainville»
«La
bougainville ti ha detto anche che sono diversi giorni che ti aspetta per
vederti seduta lì davanti a quel monitor?»
«Basta
Cecilia, sai come la penso! Mi piace leggere, adoro scrivere ma l’estate viene una
volta all’anno e l’estate dei tuoi quattordici anni arriva una sola volta»
«Ahi
ahi, confessa: te l’ha suggerito mio padre per sms? »
«Cosa?»
«Non
importa, piuttosto non occorre che tu mi racconti ancora di quanto è divertente
la beach-volley, il pedalò, i tuffi dalla diga, i balli latino americani sulla
spiaggia, i giochetti cretini degli animatori come lo sputaghiaccio, il...»
«Cecilia,
ho capito ho capito, sei prolissa»
«Si
dice incazzata»
«Correggo:
sei incazzata ma me lo devi anche spiegare il perchè, però»
«E’
mezz’ora che leggi ed eri dentro non
negarlo...»
«Allora
mi stavi osservando, ti avevo detto di no»
«Mi
stavo solo prendendo da me qualche soddisfazione. Se non l’hai notato, da
quando hai iniziato a leggere, i tuoi commenti sono stati i seguenti. Uno: Che schifezza.., all’aranciata
naturalmente. Due: Adesso mi spieghi cos’è uno scintillatore.
Punto. Vere soddisfazioni alla prima lettura ufficiale. In teoria tu
saresti anche la mia migliore amica, e unica, per l’esattezza, concludendo
quindi: mi sarei aspettata un tipo di commento un po’ più...un po’ più puntini:
completare la frase con un aggettivo a tua scelta»
«Ho
capito»
«Molto
bene: Argenti, ci stai mettendo dell’impegno, continua così»
«Avrei
dovuto profondermi in lodi senza fine, vero?»
«Vero»
«Cecilia,
non so come faccio a non mandarti a quel paese»
«Quale
paese? Se si tratta del Brasile ti bacio in fronte!»
«Brasile...certo
che sei incredibile. Hai la disgrazia di avere un ragazzo con i nonni
sudamericani, lui ti pianta proprio in estate per un mese e mezzo e tu cosa
fai? Lo segui naturalmente ma non con l’aereo, con la penna, anzi...con la tastiera!»
«Si fa quel
che si può»
«Vedi l’ora
che torni, vero?»
«Conto
i minuti, solo scrivendo non mi torturo»
«Cioè
sempre»
Cecilia
scoppiò in una fragorosa risata. Laura sapeva come prenderla, non si poteva
negare.
«Stasera
vado avanti» promise Laura alzandosi.
«Stasera?
Non dovevi andare in discoteca?»
«Sì,
come ieri e come domani, ma stasera mi voglio dedicare alla lettura di un
ottimo romanzo»
Lo
sguardo di Cecilia si illuminò e Laura rispose a quel sorriso con una
strizzatina d’occhio traducibile facilmente con: alla fine, vedi, ti giro e ti rigiro come voglio. Non era affatto
stupida Laura ed anche per questo Cecilia l’adorava.
«Sei
sicura che a Marco stia bene? Mi sembra di poter immaginare che anche lui dovrà
rinunciare alla discoteca» puntualizzò Cecilia.
«Anche
se per una volta non andiamo a ballare insieme...»
«Spiegami?»
«Prima
leggo poi ballo, prima balla poi legge»
«Una
variante di Apelle figlio d’Apollo,
mi piace» ironizzò Cecilia.
«E’
il programma della serata: andiamo a ballare separatamente. Prima ci va lui,
intanto io leggo e poi facciamo il contrario. Lo sai che le varianti possono
essere anche divertenti?»
Cecilia
la guardò allusiva cercando di nascondere con la malizia lo stupore.
«Insomma
andate a ballare ognuno per conto proprio e vi date il cambio per leggere l’ottimo romanzo. Buono, ma non ti sentirai
un po’ spaesata senza di lui, con gente che non conosci?»
«Scherzi?
Non conosco? Ma ormai ci conosciamo tutti qui al camp, te l’ho detto: tanti
sono anche simpatici »
«Tanti?»
«Alcuni.
Oh insomma, non ci devi mica passare il resto della tua vita assieme! Si sta in
compagnia, siamo in vacanza, no?»
«Certo,
anche se in due posti diversi»
«Cecilia
accidenti, se non c’ero io l’anno scorso non so se avresti conosciuto Nicola»
«Ok
l’ho conosciuto, ho conosciuto anche Laura Argenti e Marco Riso, i miei unici
amici che mi bastano e qualche volta pure mi avanzano»
«Grazie,
adesso però vieni a fare il bagno, ho appuntamento alle cinque con un po’ di
gente, vieni, altrimenti ti tiro per un braccio»
«Figurati,
se mollo Annie sul più bello!»
«Annie?»
«Mi
dispiace che non conosci Annie»
Laura
istantaneamente mise in rassegna tutte le ragazze del camp, ce n’era qualcuna
di straniera ma un’Annie non si materializzava affatto nella sua mente.
«Annie
Annie...ahi ahi...Argenti, non hai letto con attenzione»
«Oh
ma ti senti proprio la Candiali oggi...guarda che quella prof non la vediamo
più, siamo alle superiori il prossimo anno!»
«E
per fortuna!»
«E
comunque adesso ci sono arrivata, mi scuso con te e con Annie, va bene?»
«Meglio»
«La
verità è che mi aspettano, il caldo mi annebbia il cervello e vedo l’ora di
buttarmi a mollo. Tu insomma, resti con...Annie, allora?»
«Ognuno
ha la propria cerchia di amici»
«Qualche
volta mi fai paura»
Cecilia
si arrestò: lo sguardo di Laura l’aveva un po’ turbata, meglio cambiare rotta.
«Paura,
perchè? Perchè non faccio il bagno? Ti sbagli: acqua liscia come l’olio, ombre
lunghe, pace e solitudine, il bagno lo faccio tutte le mattine, appena alzata...più
o meno l’ora in cui tu vai a letto»
«Esagerata,
diciamo che ho sfruttato la splendida discoteca del campeggio, mi va di
divertirmi, faccio male?»
«Ognuno
lo fa a suo modo»
«Bene,
salutami Annie allora. Ah...ti comunico che ho appena trovato chi mi farà
compagnia in discoteca senza Marco» L’espressione di Laura non lasciava alcun
dubbio.
«Scordatelo»
«Non
ti piaceva ballare?»
«Sì,
a casa, davanti allo specchio, musica a tutto volume e nessuno tra le scatole.
Sono un mito, mi credi?»
Laura,
che era una tipetta assai pronta, riusciva a rimanere spiazzata solo da quella
sua folle amica. Rispose solo dopo un breve attimo di riflessione.
«Ti
credo»
«E
fai bene, un mito ma per pochissimi fortunati. Precisamente due: il mio occhio
destro e quello sinistro. Di discoteca non se ne parla. Figurati, non mi sono
portata nemmeno un vestito, tanto per non correre rischi»
«Il
rischio lo corri eccome: il vestito te lo presto io»
Laura
intuì come si andasse formando una piccola breccia nelle mura ciclopiche di
quell’amica che adorava profondamente e della quale, al contempo, temeva
l’incommensurabile originalità. La verità era che quando la vedeva così le
faceva proprio pena: stava bruciando le tappe, era più grande della sua età,
troppo grande. Era l’esatto contrario di ciò che vedeva nella maggior parte dei
ragazzi della sua età. Se gli altri restavano in superficie, lei al contrario
trivellava in continuazione. Trivellava tutto: la gente, il mondo, se stessa.
Di questo passo sarebbe arrivata al centro della terra e l’avrebbe oltrepassato.
Sarebbe sbucata dall’altra parte e si sarebbe perduta nelle infinità cosmiche.
Si sarebbe ritrovata vecchia, una vecchia scienziata pazza come la Jenny del
suo libro. Ma per fortuna c’era Nicola nella sua vita e c’erano lei stessa e
Marco, gli amici di cui si fidava.
«Tu
stanotte vieni con me» continuò Laura scandendo bene le parole e rendendole
pesanti come un destino ineluttabile «Su per giù le una, prima però dobbiamo avere
tutto il tempo per farci belle»
«Alle
una? Così tardi? Se lo sa mia mamma...»
Laura
fu contenta di intuire nei suoi occhi scuri da cerbiatta un residuo di ingenuo
timore giovanile. Per un attimo vide in lei una ragazza, non capitava spesso.
«Se
lo sa tua mamma fa i salti di gioia, credimi»
Cecilia
restò sola con Annie.
Annie
forte delle sue ali forti, forte del suo desiderio e della sua disperazione.
La
discoteca. Cosa si era messa in testa Laura, accidenti. Possibile che uno
stupido pensiero come quello riuscisse a distoglierla così dalle cose
importanti?
Gente,
corpi schiacciati, occhi che ti guardano, giudicano, comprano, non era un
oggetto lei. E se per una notte le avesse fatto bene recitare la parte di chi
non era affatto? Prenderla come una recita, di quelle che si era tanto divertita
a fare alle elementari. Si sarebbe anche truccata, in teatro non ci si trucca?
La parte della ragazza cretinetta che si fa bella per farsi guardare. La mamma
sarebbe stata contenta, aveva detto Laura. E aveva ragione, i suoi genitori non
avevano pagato quel soggiorno perchè se ne stesse sola sotto le bougainville.
Ma Nicola? A vederla truccata e vestita in minigonna, quella che gli avrebbe sicuramente
propinato Laura, cosa avrebbe detto? Sarebbe rimasto stecchito, questo è certo,
c’era da stabilire se per l’ammirazione o la delusione.
Ora
però doveva riuscire a concentrarsi e pensare a quel volo di Annie che
aspettava solo le sue dita sulla tastiera.
AD UN PASSO DAL CIELO
La zona di foresta in cui i figli
di Jenny Eliot vivevano beati ed ignari di tutto ciò che li circondava, era
costituita da un territorio pianeggiante di vegetazione fittissima che non
lasciava alla vista alcun margine di spaziare. In un unico luogo speciale la
foresta non si chiudeva nel consueto labirinto vegetale. Un laghetto sorgivo di
modeste dimensioni creava un buco liquido in cui gli occhi potevano conquistare
finalmente nuove dimensioni e lasciava lo sguardo libero di percorrere una
vasta porzione di cielo.
Fenicotteri rosa posti ad un lato
della vasta pozza immergevano i loro colli sinuosi alla ricerca di cibo. Dal lato
opposto Annie stava a guardarli pensierosa con le zampe aggrappate ad un fitto
reticolo di radici che si spingevano oltre il limite del suolo come artigli
nell’acqua. Ad Annie piaceva quel posto proprio perchè lì c’erano spazio e
distanze, c’era aria, c’era cielo. Concentrò la sua vista da aquila su quelle
eleganti creature: erano rosa, dalle lunghe zampe sottili ed il becco ricurvo e
lei riusciva a distinguerne le sfumature del piumaggio e perfino a vedere se
avessero o meno qualcosa in bocca. Erano belli come lei, come i suoi fratelli,
come la mamma e tutti gli esseri della foresta. Tutti belli e tutti diversi.
Chi nuotava e chi strisciava, chi camminava e chi volava. Anche lei avrebbe
volato come quei fenicotteri che dopo una lunga sosta per rifocillarsi, tutti
insieme, in un attimo, avevano preso il volo. Chissà dov’erano diretti.
Annie li guardò attraversare tutto
il lembo di cielo che la corona degli alti fusti le permetteva di vedere e li
seguì mentre scomparivano oltre le cime. Restò imbambolata con lo sguardo verso
l’alto finché un serpente verde e rosso, velocissimo, andò a cingerle la zampa
destra. Un secondo dopo anche quella sinistra finì avvolta da altre spire,
stavolta verdi e gialle. Il risultato immediato fu un bagno non previsto.
«Lo sapete che non mi piace
l’acqua!» sbraitò Annie mentre, in un’esplosione di spruzzi, faceva arruffare
le bianche piume del petto e le penne nere e grigie delle ali con rapidissime
vibrazioni di tutto il corpo.
Katie e David emersero dall’acqua
ridendo a crepapelle e, in un attimo, aggrappandosi con agilità alle radici con
due mani e cinquantaquattro serpenti a testa, furono accanto ad Annie.
«Ma Annie! Come facevamo a
resistere con quelle tue zampe lì
davanti ai nostri occhi, pronte a...» commentò Katie ancora piegata in
quattro.
«Pronte a far che? Ad essere
sbattute in acqua assieme al resto?» l’interruppe Annie seccata.
«E’ stato troppo divertente!»
aggiunse David asciugandosi le lacrime.
«Ma proprio non immaginavi di
trovarci qui all’ora di colazione?»
«E’ vero, avrei dovuto immaginarlo...se
mi veniva in mente dei gamberetti...ma non mi è venuto in mente, ecco! Pensate
un po’ che cercavo un posto per starmene tranquilla»
«Ma dai, tranquilla! Qui tra poco
verranno a bere le scimmie, sai che baccano!»
«Meglio ascoltare le scimmie che
voi, ecco!» rispose Annie risentita, allontanandosi zampettando lungo il bordo
del laghetto.
Le due Meduse, dopo una scrollatina
di spalle, si rituffarono in acqua e la loro testa di serpenti ritornò immediatamente
al lavoro, frugando il limpido fondo della pozza alla ricerca di ghiotti
bocconcini.
«Ehi Annie!» Katie riemerse un
istante dopo ed esclamò ad alta voce in direzione della sorella« Annie, io lo
so cosa guardavi sai, non ti sei nemmeno accorta di noi che stavamo sotto il
tuo naso!»
Annie si girò e fingendo un certo
disinteresse si fermò ad ascoltare.
«Guardavi i fenicotteri» Annie si
sentì trafitta ancora una volta dall’ennesima colpa della giornata. Ma quella
colpa era la più grande di tutte.
«E se è così c’è qualcosa di male?»
disse con goffa noncuranza.
«No, ma secondo me tu vorresti fare
come loro» arrivò finalmente al dunque Katie.
Annie sbottò con la voce che quasi
le tremava «Oh ma perchè tutti mi tormentate con questa storia!»
David era riemerso con la bocca
ancora che masticava. Dinanzi a lui si presentò lo spettacolo inaspettato delle
due sorelle che si guardavano in modo inusitatamente ostile. «Ma cosa succede?»
mormorò preoccupato.
«Non succede niente» rispose Katie
asciutta, mentre i suoi serpenti facevano nuovamente vibrare la linguetta, tra
le radici immerse nell’acqua. «Non è vero, succede che Katie non mi lascia
stare. E guai a lei se quello mi sfiora con la lingua!» sbraitò indicando uno
dei serpenti che sembrava dirigere le proprie vibrazioni nella sua direzione.
«E cosa ti ho detto di tanto grave,
dimmi?»
«Che voglio disubbidire alla mamma»
«Questo lo stai dicendo tu
veramente. Io ho detto solo che ti piacerebbe»
«Lo so di cosa state parlando: che
la mamma le ha detto tanto di non volare alto, vero? Ma lei non lo fa, no Annie?»
commentò David assumendosi il ruolo di bravo paciere. Ma detto da David, che un
bravo paciere non lo era mai stato, la frase suonò ad Annie come l’ennesima
provocazione. E la risposta che diede lasciò entrambi di ghiaccio.
Aprì le ali allungandosi verso
l’alto e così facendo apparve in un attimo molto più grande, più matura e più
forte. Quelle ali in tutta la loro apertura erano immense, non le avevano mai
viste aperte a quel modo mentre ostentavano tutta la loro ampiezza. Non solo loro,
ma nessuno dei fratelli l’aveva mai vista così e nemmeno la mamma, perchè
quella cosa che stava facendo per la prima volta non avrebbe potuto procastinarla in eterno.
Lei stessa si vide immensa e ciò
non la turbò affatto. Katie e David ebbero l’impressione che fosse cresciuta di
diversi anni sotto il loro naso, sembrava diventata grande su un colpo con la
forza e la determinazione di un grande.
Accompagnata dallo sgomento nel
loro sguardo, la giovane Arpia mosse vigorosamente le ali. Le sue zampe in un
attimo lasciarono il suolo. Le bastò qualche battito ben assestato per librarsi
possente ad un metro dall’acqua. Restò così ad ali spiegate viaggiando a gran velocità
sfiorando l’acqua verso l’altra sponda sotto lo sguardo attonito dei due
gemelli.
Un attimo dopo David e Katie a
bocca aperta ascoltavano la sua risata argentina che proveniva dall’altra parte
dello specchio lacustre. Quanto poco ci aveva messo a coprire quel centinaio di
metri? Era balzata dall’altra parte con la velocità dei grandi uccelli. Loro
nel cielo non c’erano mai stati ma avevano visto i giaguari correre nella
foresta. Lei era assai più veloce di un giaguaro. Lei aveva la velocità di chi
apparteneva al cielo e non alla terra, di chi aveva bisogno dei grandi spazi
aerei per vivere ed essere felice. Restarono ammutoliti a guardarla con
l’impressione sinistra che sull’altra sponda non vi fosse più la sorellina che
conoscevano.
«Non ho volato alto, no?» Udirono i
gemelli in lontananza e quelle parole non ebbero affatto il potere di tranquillizzarli
«Quindi lo posso fare ancora» continuò davanti a loro un attimo dopo.
David e Katie tremavano di un’ansia
sottile per la -quale non ebbero nemmeno il coraggio di guardarsi. Continuarono
a restare impalati e muti in piedi, aspettandosi il peggio mentre la guardavano
andare e venire mentre sfiorava l’acqua con le ali e giocare con quella
distanza che sembrava ridursi ad ogni suo volo.
Ad un tratto cambiò direzione e
prese a percorrere ampi giri come le aquile in cielo, maestosa e fiera come le
regine dell’aria. Così anche se non
era affatto in cielo ma appena un metro lontana dall’acqua, agli occhi dei due
fratellini sbalorditi, quel volo circolare, robusto ed elegante, apparve come
un presagio terribilmente funesto.
«Alice,
guarda!» Timmy, la piccola Arpia maschio, stava arrivando galoppando in
groppa alla sorella maggiore.
Quest’ultima per far divertire lui e Liza, il fauno di tre anni, si muoveva alternando
il galoppo a leggere scalciate che facevano sobbalzare entrambi sul suo dorso.
Liza si teneva ben salda alle penne di Timmy, a sua volta aggrappato al torace
di Alice con le ali e sembravano divertirsi davvero un mondo in quella curiosa
giostra.
La bella Centaura dai capelli
corvini si arrestò d’un colpo.
«Alice hai smesso, uffa!...hi
guarda sta volando! Annie vola, guarda come vola!» sembrava fosse Liza l’unica
a compiacersene ed in effetti era l’unica che avesse avuto il coraggio di
aprire bocca. Timmy, sopra la groppa di Alice, con le manine che spuntavano
dalle penne delle ali, si coprì gli occhi, diventando un grumo informe di penne
e piume, sotto le quali i capelli corvini scomparvero completamente.
La Centaura riprese a spostarsi
verso il laghetto con lentezza esasperata.
Gli sguardi di David e Katie si
incrociarono sgomenti con quelli dei fratelli in arrivo e subito dopo entrambi
corsero ad abbracciare la sorella maggiore avviluppandola dove potevano con
braccia e serpenti e con tutto quello che potesse servire loro a sentirsi
protetti dal calore rassicurante del suo grande corpo equino.
«Annie è diventata matta» sancì
Katie, guardandola negli occhi volgendo la testa dove il volto della sorella
sembrava potesse dominare il mondo dalla sua altezza.
«State facendo la cosa più grande
di quello che è, rilassatevi tutti quanti, che è meglio» Johnny, il Centauro dodicenne,
era comparso all’improvviso alle loro spalle.
«Johnny, cosa dici? Non sono
voletti quelli, sta volando sul serio, guardala!» esplose Alice animata da
evidente angoscia.
«Vola ma non vola alto, guardate...ecco
ha toccato l’acqua! Li avete visti gli spruzzi? E’ cielo secondo voi quello?»
I quattro fratellini abbarbicati al
corpo di Alice, chi sopra e chi sotto, non mossero un muscolo e nemmeno Alice
fece nulla per scrollare di dosso quell’assillante compagnia.
«Quanta paura...il riflesso del
cielo può trasformarsi in cielo vero, secondo voi? Magari tra un po’ piove da
sotto, con le nuvole a rovescio» Johnny non era riuscito a far divertire
proprio nessuno con quella battuta e comunque aveva la piacevole sensazione di
sentirsi molto più ometto degli altri in quel frangente che pareva aver privato
anche Alice della sua carismatica flemma.
«Non è cielo, è acqua, è acqua!» spezzò ad un
tratto il silenzio Liza, dall’alto della groppa di Alice. Ed iniziò a
saltellare sugli zoccoletti, compiaciuta di aver capito la cosa prima degli
altri che mantenevano ancora nell’espressione il turbamento iniziale.
«Smettila Liza, mi stai triturando
la schiena» la redarguì secca Alice. Liza smise all’istante.
Annie guardava estasiata il
biancheggiare delle nuvole sotto di sé e il volo degli uccelli che si rincorrevano
sotto le sue zampe in quel mondo alla rovescia che era l’immagine stessa della
sua illusoria felicità. Con quel finto cielo sotto di sé, provava una
sensazione nuova, inebriante. Si sentiva padrona dell’aria, di quell’aria che
riusciva a dominare con le sue ali possenti. Era incredibile: esse sembravano
già conoscere tutto ciò che serviva per padroneggiare il suo corpo nel cielo.
Come rapita da quel movimento rotatorio, in un’estasi infinita di godimento
assoluto, sembrava non doversi più fermare.
«Ho detto che non si ferma più»
mormorò Katie piagnucolando.
«Si ferma si ferma...e vedrete che
se noi andiamo via si fermerà anche prima» decretò Johnny muovendo i primi
passi lontano dal lago. Tutta la curiosa combriccola lo seguì in silenzio.
AD UN PASSO DALLA PORTA
Per Jenny Eliot trovarsi a casa in quell’ora assai insolita
era di per se stesso inquietante. Era rientrata a casa molto in anticipo
rispetto all’orario stabilito, non era forse mai successo.
Più che entrata, era scappata. Una
fuga disdicevole. Davanti a tutti i suoi collaboratori, davanti a Brad Parker
che stava facendo la cosa più giusta per lei, quella che lei stessa avrebbe
dovuto fare e molto prima: accertamenti seri e una cura ben fatta, forse addirittura
l’applicazione di un bypass.
Avrebbe voluto sprofondare ed alla
rabbia si era così sostituita la vergogna e in un rapidissimo evolversi di
emozioni accanto alla vergogna si era fatto largo un ospite altrettanto
insolito: la paura. Aveva rischiato di morire quella stessa notte e lei aveva
l’incoscienza di restarsene lì sola, lontana da tutti, con una bella password a
fare da guardia a chiunque avesse desiderato soccorrerla. Anche in quel preciso
istante, magari con un infarto alle porte, lei stava perdendo il suo tempo a
ragionare. O sragionare che fosse.
Con quella sua capacità di piegare
la materia vivente al suo volere, aveva vissuto un’esistenza speciale da Creatore
e come Dio si era illusa, nel profondo di se stessa, di poter generare vite, e
vite speciali, senza intoppi di salute, efficiente come sempre. Era invece un
Dio debole, imperfetto e bisognoso di cure. Bisognoso degli altri. Un Dio
assurdo. Forse doveva smetterla con quel gioco da pazza, guardare in faccia la
realtà, pensare a se stessa e ai suoi figli.
Figli. Dopo la paura il panico:
aveva generato delle creature che andavano gelosamente tenute nascoste, troppo
perfette per essere amate da un mondo di idioti alla vigilia dell’estinzione.
Unico seme del futuro, non avrebbe mai potuto germinare in un terreno
irrimediabilmente impoverito, avvelenato. Solo la terra fertile e vergine di
‘Eden Project’ avrebbe potuto preservarne l’integrità.
Ma se lei avesse ceduto alla
tentazione di anteporre la sua vita assicurandosi la possibilità di un soccorso
immediato, il suo segreto sarebbe stato scoperto. E i suoi figli in pericolo.
Se avesse deciso di trascorrere la maggior parte del tempo fuori dalle sue
stanze personali, nella speranza che un eventuale altro problema si verificasse
quando non si trovava sola, avrebbe potuto raggiungere l’ospedale di Manaus.
Due ore di strada battuta con la jeep dal ‘Biodiversity Research Center’ alla
città, poi altra strada in mezzo al traffico: tre ore, forse due e mezza. Sarebbero
bastate per giungere in tempo? Se fosse morta i suoi figli sarebbero restati
soli con il loro segreto, un segreto fragile una volta fuori dalla tutela della
sua vigile presenza. Ma anche se si fosse decisa ad affrontare la malattia
senza nascondere la testa sotto la sabbia, avrebbe dovuto lasciarli a lungo
accerchiati da ogni parte, in balia di un mondo perverso.
Che fosse morta o scomparsa, anche
solo per un certo periodo, per i suoi figli sarebbe stato esattamente lo stesso:
non avrebbero potuto spiegarsi la sua sparizione e lei non avrebbe mai potuto
prepararli all’evento, dare loro delle spiegazioni. Che mai poteva dire? Che li
lasciava per un po’ perchè andava in ospedale? Cos’era un ospedale per loro?
Non poteva e non doveva esistere un ospedale per i figli di Jenny Eliot, come
non doveva esistere nel loro pensiero nient’altro che quel bel mondo che conoscevano.
‘Eden Project’ doveva essere l’unica
realtà possibile, l’unico orizzonte nel quale muoversi con il corpo e il
cervello. Nessuna spiegazione alla sua scomparsa perchè uscire da quel mondo
anche solo con la mente avrebbe significato per loro una tentazione fortissima.
Dopo averla cercata ovunque e non trovando di lei nemmeno il corpo che ponesse
fine alle loro speranze, avrebbero sicuramente allargato i percorsi abituali,
rischiando di uscire dalla riserva.
Annie.
Un tuffo al cuore, quel suo cuore
malato aveva incredibilmente retto a quell’istante in cui si sentì sprofondare
all’inferno. Annie le aveva già rubato tante volte il sonno, Annie rischiava di
ucciderla con quelle sue ali che chiamavano il cielo. Annie rischiava di uccidere
i suoi fratelli e il futuro di un’umanità diversa sulla terra.
Annie non sarebbe mai stata a
guardare dal basso, avrebbe infranto il divieto, non chiedeva altro.
Annie doveva morire e anche lei
stessa doveva morire.
Insieme. E per amore.
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