PACIFIC VORTEX
Pacific Trash Vortex è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (soprattutto
plastica) situato nell'Oceano Pacifico. La sua estensione non è
nota con precisione: le stime vanno da
700.000 km²
fino a più di 15 milioni di km²,
pari a tre volte la superficie della penisola
iberica.
Cecilia
aveva gli occhi grandi come lanterne.
Sulla
schermata di Wikipedia, quell’ammasso
gigante di schifezze in mezzo al Pacifico stava assorbendo tutte le sue
funzioni mentali. Le sembrava di sentirlo circolare
all’interno della sua testa, inesorabilmente in senso orario come le correnti
oceaniche che
lo avevano generato, mentre si espandeva a dismisura come un gigantesco
minestrone di plastica. C’era di tutto: bottiglie, contenitori, flaconi, imballaggi,
borse, borsette,
anche qualche paperetta per le vasche da bagno.
«Cecilia,
mi fai vedere?»
Le si
era avvicinata quella nuova. Le pareva si chiamasse Laura.
«Sì, certo,
certo» rispose
Cecilia, ancora rapita da quelle immagini, ma sufficientemente in
sé
per capire che quella cosa che le era appena successa aveva qualcosa di
assolutamente insolito. Pur con la mente occupata da tonnellate e tonnellate di
rifiuti profondi
trenta metri dal pelo
dell’acqua, non se l’era lasciata sfuggire l’occasione del secolo e aveva
risposto come se tutto fosse stato normale. Non lo era invece, non lo era per niente, non
lo era da due lunghissimi anni, esattamente da due lunghissimi anni e due
giorni. Il terzo anno di sciagura era appena iniziato, infatti, in quella favolosa III
D, popolata da un’intera colonia di vampiri. Ventidue: 8 maschi e 14 femmine. Ora
erano in 23 per la precisione ma l’ultima arrivata non aveva ancora individuato di che
specie fosse.
Era
stato bello sentirsi chiamare, dall’inizio dell’anno non era ancora mai
successo. Sembrava
che,
dopo tutto quello che era accaduto in passato, dopo i pettegolezzi, dopo le
liti e dopo le burle, Cecilia non potesse essere, per i suoi compagni, che
qualcosa di simile ad un
disturbo
cronico con il quale rassegnarsi a convivere.
Sentirsi
chiamare. Sentirsi chiamare per nome. Sentirsi chiamare per nome e da una sconosciuta.
Forse quel nobile isolamento del quale, con
lacrime a fiumi, aveva
imparato a
sentirsi fiera,
poteva essere finalmente infranto e la porta della sua anima, blindata con scrupolosa attenzione,
aperta ad una nuova speranza.
Nel
solito posto vuoto, destinato a restare tale,
era accaduto il miracolo e la sconosciuta di
nome Laura si era seduta sulla sedia a fianco della
sua,
davanti al suo
stesso
computer.
«Perchè ti
sei spostata?»
chiese Cecilia, incuriosita dal fatto che avesse lasciato proprio Matilde per
venire da lei.
«Per
forza...»
e si interruppe. Cecilia la guardò incuriosita.
«Li vedi quelli a destra di
Matilde?»
fece Laura sottovoce «anche quelli a sinistra, veramente» e riprese
ancor più sottovoce «naviga, naviga, sai dove sono
finiti ‘per caso’? Prova ad
indovinare!»
Cecilia
si sentì decisamente a corto di idee e pensò fosse più elegante rispondere
con un cauto silenzio.
Laura
continuò: «Guarda,
mi danno i nervi, non dovevamo cercare notizie sulla plastica? Sai
quelli di che plastica si stanno occupando?» Cecilia
continuava a navigare
nell’ignoto. «
‘Bambolone
di plastica’
ma non quelle dei negozi di giocattoli. Mi capisci?»
Non
capiva. Peccato, pensò Cecilia, inaugurare un incontro così promettente
con un’espressione idiota come quella che si sentiva addosso. Tutto
sommato, però, non
provò un grande imbarazzo: erano lontani quei dannati momenti in cui si
vergognava terribilmente per qualunque cosa. Aveva capito che sentirsi
deficiente ogni tanto non era poi la fine del mondo. Ora si sarebbe sentita
deficiente nel vergognarsi.
«Le
bambolone dei sexy-shop! Laggiù
vanno a caccia di siti porno, ci sei?» ed aggiunse,
sorridendo:«forse
credono di essere rimasti in tema: sempre di plastica si tratta. Io, invece,
preferisco navigare un po’ nel tuo mare di rifiuti. Ti dispiace?»
Uaooh. Che
presentazione. Laura le aveva sottoposto nel giro di pochi istanti un curriculum da
capogiro: decisa, impegnata, intelligente, ironica. Senza dubbio più informata di
lei, almeno su certi temi. Forse non quelli fondamentali, ma utili,
se non altro, ad evitare figuracce.
In
altre parole, assunta a tempo indeterminato.
«Pacific
Vortex»
pronunciò Laura dinanzi all’immagine di rifiuti a perdita d’occhio galleggianti
per l’Oceano Pacifico. «Pensa un po’, proprio a nord
delle Hawaii, le isole più belle del
mondo, c’è l’isola più brutta, un ammasso grande come mezza Europa»
Ma
dove stava leggendo? Cecilia quelle cose le sapeva perchè le aveva appena viste
in un’altra pagina, ma davanti a loro c’era solo
un’immagine e nessuna spiegazione. Era informatissima
quella ragazza e non solo sui siti porno, grazie al cielo.
Chissà
se viveva i problemi ambientali come lei, come se si sentisse responsabile
con le sue azioni dirette, quotidiane, come se il futuro del Pianeta dipendesse
dal suo comportamento. In
prima fila in una battaglia dagli accenti epocali.
Tutto
quell’eroismo le era già costato in classe parecchie batoste. Meglio evitare le
crociate,
si era detta da un pezzo ed ora, che era cresciuta, sentiva di aver abbandonato
l’ingenuità di quei giovanili ardori,
coltivando i suoi principi all’ombra di una preziosa solitudine.
«Hai
provato qui?»
propose Laura cliccando su una nuova pagina.
Lo chiamano Pacific
Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico, ha un diametro di
circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80%
da plastica e per il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove.
"È come se
fosse un'immensa isola nel mezzo dell'Oceano Pacifico composta da spazzatura
anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità del
materiale ha raggiunto un tale valore che
il peso complessivo di questa ‘isola’ di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate",
spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco, da poco
tornato da un sopralluogo.
Questa
incredibile e poco conosciuta discarica si è formata
a partire dagli anni Cinquanta, in
seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica
che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti
ad alta pressione.
Storicamente i rifiuti di origine biologica erano spontaneamente sottoposti
a biodegradazione, mentre in questo luogo si sta accumulando una enorme quantità di plastica e di rottami
marini. Anziché biodegradare, la plastica si
"fotodegrada", disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli, fino alle
dimensioni dei polimeri che la compongono la cui ulteriore biodegradazione è
molto difficile.[3] La fotodegradazione della plastica può
produrre inquinamento
da PCBs.
Il galleggiamento di tali particelle che apparentemente assomigliano a zooplancton, inganna le
meduse che se ne cibano, causandone l'introduzione nella catena alimentare.
«Che
disastro, pensa un po’a quei poveri pesci che si trovano nella pancia microscopici
pezzettini di plastica» commentò Laura.
«Le
tartarughe invece si mangiano i sacchetti di plastica direttamente» aggiunse
Cecilia. E continuò: «Se ci abitassero delle sirene? Ci pensi tu a come
potrebbe prendere una cosa del genere un intero popolo di sirene?»
Le
era scappato. Quella sua esplosiva fantasia non sapeva restarsene al suo posto. Mai.
«Come,
scusa?»
Laura sembrava non aver capito.
Murene.
Poteva dire murene. Era
facile scambiare sirene con murene. E
tutto sarebbe tornato al suo posto. Non voleva che quelle sirene piombate
all’improvviso rovinassero quell’inatteso miracolo e la
dividessero subito da quella ragazza nella quale
sperava tanto di trovare un’amica. Troppo impegnative da portarsi appresso come
tutto quel suo mondo fantastico
con il quale amava condividere gran parte del suo tempo. Ma di
bugie non se ne
parlava:
accettarla doveva voler dire accogliere anche tutte le sue sirene e con le sirene tutto
ciò che di fantastico popolava la sua mente.
«Non ho
capito. Hai detto sirene?» ribadì la ragazza.
«Sì, pensa
un po’se proprio in quella zona fossero vissute da migliaia di anni una
popolazione
di sirene e tritoni, magari in
qualche modo legate proprio a
quelle correnti...»
«...che
servivano per una migliore ossigenazione dell’acqua, ideale per il loro
particolare sistema
respiratorio misto branchie-polmoni.
Quelle correnti, ognuna con la propria velocità,
creavano autentiche strade che quelle popolazioni percorrevano
instancabilmente da migliaia di anni in una città frenetica fatta di pura acqua...»
«Quelle
correnti, ognuna
con le proprie caratteristiche di temperatura e salinità, colore e trasparenza, creavano ambienti
ai loro occhi diversissimi: condomini, ricchi palazzi, viottoli, parchi
e zone ricreative dove un occhio terrestre avrebbe visto solo e nient’altro che
acqua...»
Laura
avrebbe continuato imperterrita il suo viaggio in quelle favolose correnti popolate
da un antico popolo del mare, quando vide che Cecilia la fissava. Laura sembrò
spaventarsi, forse aveva l’impressione di aver corso troppo e tacque. Cecilia
si era già pentita amaramente
per quello sguardo sbagliato. Sbagliato e nel momento sbagliato. Non sapeva
più cosa dire. Era
stata proprio lei a riportare Laura alla realtà, proprio lei che non era
riuscita a lasciarsi andare
in quel gioco meraviglioso. Era passato diverso tempo da quando, con le
amichette delle elementari, riusciva a vivere una realtà parallela fatta di
lotte tra buoni e cattivi, di magie e poteri
usando tutto il suo nutrito esercito di Barbie e affini. Ora
l’esercito se ne stava impolverato a guardarla dalla mensoletta della sua
camera ma la sua immaginazione continuava a
portarla ovunque ed era tutt’altro che impolverata.
A differenza del passato, però, le sue avventure le conduceva rigorosamente in
solitaria. Chi mai l’avrebbe più seguita nelle sue meravigliose storie ricche
di personaggi, ambienti fantastici, amori, dolori e colpi di scena? E così esse
si svolgevano
principalmente prima di addormentarsi, nel calduccio del suo letto, e spesso
anche nel tragitto casa-scuola. Talvolta finiva persino per sbagliare
strada.
Ora
però era stata la realtà a vincere anche su di lei con tutto il suo carico di
arida normalità. E
proprio lei si era ritrovata a guardare Laura come fosse strana.
Proprio lei l’aveva fatto, proprio lei che ormai era convinta di essere strana
per
vocazione.
Laura
si alzò senza dire una parola, approfittando del suono della campanella che indicava
il cambio dell’ora e scivolò in silenzio in mezzo al gruppo di tutti gli altri
ragazzi che, un po’chiacchierando e un po’spintonandosi,
usciva dall’aula di informatica.
Gli
unici ad indugiare furono Matilde e compagni, impegnati a contenere un’ilarità
gonfia
di soddisfazione per quell’avventura così ben riuscita a dispetto di regole e
professori. E in barba anche a quella gente strana, come
quella nuova, Laura, o quella solita, Cecilia, della
quale non valeva nemmeno più la pena di parlare.
Capitolo 2
QUATTRO PENNE PER L’AMBIENTE
A
scuola, Cecilia
passò i
giorni seguenti alla solita maniera. Si era assuefatta da tempo alla propria
invisibilità ma non altrettanto riusciva
a digerire l’atteggiamento di Laura. La
netta impressione era che la stesse deliberatamente evitando. Non
si sarebbe potuto dire
diversamente
infatti di una persona che abbassa gli
occhi quando passi o si gira dall’altra parte se per caso si sente osservata.
Anche riuscire a non trovarsela mai in bagno a ricreazione era un
dettaglio da non sottovalutare, come pure non finire una sola volta per
incrociarla quando si trattava di prendere il materiale dagli scaffali. Che
tristezza.
«E adesso, ragazzi,
ascoltatemi perchè ho una proposta interessantissima da farvi» Fu
così che esordì
coraggiosamente, dopo appena una settimana dal suo arrivo, la giovane professoressa Nivato,
che avrebbe supplito quella d’italiano per un bel po’di tempo, visto che la
poveretta, durante le vacanze, si era rotta femore e clavicola cadendo da
una scala. a
Cecilia
guardò quella giovane insegnante con una certa compassione. Di bell’aspetto,
con abbigliamento da ragazzina, perchè
ragazzina lo era per davvero, aveva pochissime probabilità di uscire
viva dalla lunga permanenza che le si prospettava in
quella classe. La proposta interessantissima, per
interessantissima che potesse essere, sapeva bene come sarebbe
andata a finire
in quella bella classetta.
«Quattro penne per l’ambiente» un
concorso a premi per ragazzi come
voi»
Ci fu
un attimo di attenzione che l’insegnante badò bene a non
farsi scappare.
«Sapete
perchè si chiama così? Provate ad immaginarlo»
Fu
subito travolta da uno stuolo di braccia alzate e di risposte caotiche che
andavano a parare in diverse direzioni, le più disparate. Venne fuori che penne
stava per uccelli e che bisognava
salvaguardare quattro tipi d’uccelli o che le penne erano quelle per scrivere e
che ognuno
avrebbe dovuto realizzare un bel tema con penne di quattro colori. Quell’esercizio
di fantasia era riuscito per davvero a catturare
l’attenzione dei ragazzi e questo apparve a Cecilia già un successo insperato.
Fu
contenta di essersi sbagliata: forse non tutto era perduto per
quella ragazzetta che giocava a fare l’insegnante. Magari sarebbe riuscita davvero a tirar
fuori del buono anche dai suoi compagni.
Persa
ad indagare nel futuro di quell’innocente, Cecilia si accorse che in quel gioco
a chi ne sparava di più, lei proprio non c’era. Eppure fantasia non le mancava. Iniziò a pensarci
ma il frutto della sua immaginazione la colse di sorpresa spaventandola per la
sua pericolosa
veridicità.
Ricordò
la fissa di quella giovane supplente: i lavori di gruppo. Aveva annunciato quella
calamità sin dal primo giorno e, fresca di studi ed ansiosa di fare i suoi
esperimenti didattici,
con tutta probabilità, aveva deciso di passare
finalmente all’azione. L’idea che con orrore si
materializzò nella mente di Cecilia era che, dietro a
quelle maledette quattro penne, dovessero situarsi altrettanti cervelli. Un
concorso per gruppi. Per la
precisione:
gruppi di quattro. Quattro penne
da usare poco per scrivere e molto per ficcarsele negli occhi, in senso
figurato e
non.
Ah,
com’era bella la vecchia lezione d’italiano con la terribile
ed anzianotta Candiali, che
spiegava e interrogava con note e registro, ognuno da solo, sul
suo banchetto. Nessun
pericolo di innovazioni strampalate che la mettessero in contatto con
quella brutta gente che le stava attorno. Per rapportarsi coi
compagni restavano solo quei pochi minuti di ricreazione, che si
potevano anche sopportare ma solo perchè erano dieci, nei
casi più fortunati anche cinque, se la prof non aveva finito l’argomento. Ma
c’erano anche le giornate di vera pacchia,
quelle in cui, causa comportamento, la ricreazione si saltava del tutto e si
andava in bagno rigorosamente uno
alla volta. Bei tempi.
La
situazione intanto era degenerata e la giovane professoressa stentava a ritrovare
quel silenzio necessario per portare avanti il suo piano pernicioso. Cecilia
cominciò a
sperare: si sarebbe
esasperato chiunque al suo posto.
Ed
invece la sospirata nota di classe non arrivò. Al suo
posto la folle proposta avanzò con
l’inesorabile tenacia di un carrarmato.
La
furbastra aveva colpito con una mossa inattesa e più di qualcuno iniziò a tirar
bene le orecchie: era entrata nello specifico a parlare di premi. Nessuno
sapeva cosa avrebbe dovuto
fare, il contenuto, il modo, eppure il premio, quello sarebbe stato il primo
punto da trattare per poter ottenere un po’di attenzione. Era una dritta quella
ragazzetta vestita da prof. Sta a vedere che sul serio avrebbe dovuto
condividere banco e
foglio con tre di quei suoi bravi compagni. Chi? Un esercizio di fantasia, quello, che non
le piacque per niente.
«E partiamo
allora dalla fine e cioè dal premio: una vacanza-natura a Lampedusa con
il WWF per il gruppo dei quattro giovanissimi scrittori più meritevoli. Che ve ne pare?»
Cecilia
fu sul punto di svenire. La sua ipotesi era dannatamente giusta. E dopo il
danno si prospettavano anche le beffe, perchè, nel
malaugurato caso in cui avesse vinto il concorso, avrebbe dovuto
essere premiata con un
soggiorno ad Alcatraz. Perchè, si
fosse chiamata Lampedusa, Seychelles o in-capo-al-mondo
sempre di un penitenziario
si sarebbe trattato.
Non
era infatti distante né dal tempo né dal cuore
la brutta faccenda della settimana
verde, nella quale, per un’odiosa burla di quattro compagne, capeggiate da
quella iena di Matilde, si era trovata a passare un’intera nottata nel
seminterrato dell’albergo e precisamente
nella casetta dei Tre Porcellini della stanza-giochi, in attesa
di una festa che mai si sarebbe
tenuta. Era finita che la professoressa d’inglese, per fortuna,
aveva scoperto tutto: a Matilde & C arrivò una bella sospensione mentre
Cecilia si dovette accontentare del ludibrio dell’intero Istituto. Non
gliel’aveva mai perdonato.
Catturati
i pollastri con la faccenda del premio, la giovane
insegnante
pensò di cavalcare l’onda
di quel suo successo con un discorsetto ben fatto.
«Io non vi
conosco, quindi la cosa migliore è che decidiate voi come formare i gruppi. Prima
di iniziare a dividervi, ascoltatemi bene però: il
concorso non ha solo il fine di farvi riflettere sui problemi ambientali ma ha
un altro scopo
ben preciso:
quello di stimolare i ragazzi a
lavorare in cooperazione. Significa che bisogna imparare non solo
a parlare ma anche a
farsi capire e per farsi capire bisogna che gli altri abbiano imparato ad
ascoltare»
Cecilia
trovava interessanti quelle parole, in teoria s’intende, ma vide che, mentre
si parlava di
ascolto, ad ascoltare era solo lei. Lei e Laura, per la precisione, situata al
capo opposto della classe. Dei suoi compagni non ce n’era uno che ponesse
attenzione a
quelle parole tanto accorate. Passati direttamente alla
fase pratica, stavano già applicando consolidate
strategie cooperative quali: parlottare a voce più o meno alta e fare
gran uso delle mani per far segni molto espliciti, del tipo Vieni con me, Vai con loro, e
così via, con gran profusione di
indici in movimento
puntati verso questo o quella e quell’altra no, pure in
gola per le sistemazioni meno gettonate.
Fatto
sta che,
alla fine del discorsetto, ognuno aveva capito poco o nulla di quella proposta ed
al contrario aveva un’idea già abbastanza chiara di come si sarebbe ripartita in
gruppi la classe.
Ma
c’era un problema.
«Ho capito
perchè vi state agitando» disse la Nivato, stremata
e con la gola che urlava rabbia e dolore, in senso metaforico naturalmente,
visto che la sua potenza vocale si stava pian piano stabilizzando verso uno
stato di semi-afonia. «È evidente
che ventitre
non è divisibile per
quattro. Tranquillizzatevi, faremo cinque gruppi da quattro e uno
da tre. Quattro penne è
indicativo, serve a richiamare in voi lo spirito di collaborazione,
anche il gruppo da tre è ammesso, nel caso di esigenze particolari»
E, frustando le corde vocali, riuscì ad aggiungere nel fracasso oramai
incontenibile: «Adesso
che ne direste di ascoltare quello che dovete fare?»
Nessun
risultato. Semplicemente perchè
il problema non era solo matematico. Ce n’era uno di molto più serio
e di tutt’altra natura. Tragicamente
evidente appariva il pericolo che incombeva su ognuno dei
presenti in quella classe:
Cecilia. A chi sarebbe capitata la mina vagante?
Matilde
era agitatissima: con il suo gruppetto storico, Fiorenza, Annalisa e Raffaella,
aveva
malauguratamente avuto un piccolo diverbio poco prima.
Aveva
fatto l’offesa e si era girata dall’altra parte senza badarle per tutta la
mattinata, tanto sapeva che,
come al solito, non sarebbe durata.
Ma ora, in quel gioco ai quattro cantoni, rischiava seriamente di farsi fregare
il posto da altri, appostati come falchi.
Tutto
per quella brutta storia della matematica che
non voleva il ventitre
in nessun caso divisibile
per quattro. Per tutti era chiaro infatti che nel resto di tre ci sarebbe stata
sicuramente
Cecilia e assieme a Cecilia quella nuova che non piaceva a nessuno. Ma
per arrivare a tre mancava
ancora uno. Uno solo abbandonato al suo misero destino: ecco
spiegato il perchè di tanto allarme, ecco spiegato perchè con una calamità del
genere nessuno potesse avere nient’altro in testa che la propria sopravvivenza.
«Visto che non mi state ad
ascoltare, sistemiamo questa storia dei gruppi una volta per tutte.
Collocatevi, senza rovesciare la classe, mi raccomando, nei sei punti
raccolta che vi indicherò ora»
Non
fu una buona idea, anzi pessima. Chissà se
gliel’avevano insegnata
all’università. Fatto sta che si scatenò un putiferio: ognuno correva cercando
di mettersi in
salvo al riparo di qualcun altro, spostando sedie e urtando
banchi al proprio passaggio. Tra urla
selvagge e qualche spintone, cadevano gli astucci e venivano
calpestati
piedi e quaderni. La cosa colse di sorpresa la supplente,
lasciandola senza parole, che peraltro nessuno stava udendo da un pezzo.
Poi, come per
miracolo,
cadde nell’aula una quiete strana.
Venti
paia di occhi, al sicuro dai loro punti raccolta,
osservavano attenti le mosse delle ultime pedine che si muovevano incerte sulla
scacchiera.
Veramente
l’unica delle tre pedine a muoversi era Matilde, che si
aggirava spaesata come
uno spettro inquieto. Guardava ora a destra, ora a sinistra, poi si girava su se
stessa colpendo ogni angolo di banco che le passava a tiro. L’avevano
mollata le sue fedeli compagne,
abbandonata al suo infelice destino. Non ci poteva credere, non si capacitava
di come fosse
arrivato un simile tiro e proprio da loro. Ad un tratto
si sedette e abbassò gli occhi, arresa all’evidenza della propria sciagura.
Cecilia
invece non si era mossa dal proprio banco, tutto a
destra in prima fila. Nemmeno Laura da quello più indietro
all’estrema sinistra. Al segnale della giovane professoressa erano
restate sulle proprie seggiole come se la cosa non le riguardasse.
Per
alcuni istanti rimasero sedute in tre, sotto gli
sguardi insistenti dei compagni, poi, insieme, si
alzarono e si diressero verso la supplente.
«Non venite
da me, avete il vostro punto raccolta, quello del sesto gruppo. Quello! Ma...mi
capite quando parlo?» specificò
la Nivato,
indicando la zona accanto alla lavagna.
Farfugliarono
ognuna qualcosa ma, quando tutte si accorsero
che la loro unanime richiesta
era quella di andare in bagno, tacquero simultaneamente. Cecilia fu la prima a
dirigersi
verso la lavagna. La seguì Laura, Matilde invece chiese ripetutamente,
disperatamente, di
andare in bagno e la professoressa gliel’accordò senza dire
altro, colpita da quegli occhioni
azzurri che sembravano un mare di lacrime. Poi proseguì con la
sua spiegazione: «Bene ragazzi, ora che abbiamo
affrontato con successo lo scoglio più duro, possiamo cominciare a
lavorare, che ne dite?»
I più
stavano ancora commentando le
sorti di Matilde.
«Allora vi
interessa o no sapere come meritarsi una bella vacanza a Lampedusa?» L’argomento
riuscì a riportare sul binario giusto gran parte della classe e,
confortata, la Nivato entrò finalmente nel merito.
«Una
storia, scrivere una storia tutta vostra, un romanzo breve costruito da voi con
tanto di
capitoli. Abbiamo un mese per lavorarci e consegnare il lavoro entro la data di
scadenza: il sette novembre».
I
ragazzi, ancora raccolti a capannelli lungo i lati dell’aula, iniziarono a sedersi
chi su una sedia, chi sull’angolo di un banco, scambiando sguardi poco convinti
con i vicini. Ma ancora
tacevano.
«Vi si
chiede di scrivere ma su un argomento specifico. Come potete indovinare dal titolo del
concorso, le penne lavoreranno assieme per l’ambiente. Ambiente: sarà questo il
vostro tema. Sia ben chiaro: non una ricerca sui pinguini...» La
giovane insegnante
aveva
creduto con la battutina di guadagnarsi qualche altro mezzo minuto di attenzione e ci
restò un po’male nel vedere che con quelle parole non era riuscita a strappare loro
nemmeno il più piccolo sorriso.
«Volevo
dire: non si tratta di mettere assieme delle conoscenze, ma di muovere la fantasia per
dar vita, come vi dicevo, ad una storia fantastica o verosimile, ad
un’avventura, una fiaba o che ne so anche ad un...thriller...»
Concluse
la frase un po’ sottovoce,
con un lampo di suspence negli occhi. I
ragazzi risero. La professoressa allora continuò più rinfrancata.
Peccato che il successo non fosse dovuto alla sua breve
interpretazione alla Dario Argento ma alla battutina sommessa di Silvio sul
pinguino squartatore.
Cecilia
dentro di sé
aveva una rivoluzione. Avrebbe voluto gridare tutta la sua gioia per quello che
le si stava proponendo di fare. Finalmente scrivere per qualcosa che le
interessava
davvero, utilizzare la scrittura per dar voce al meraviglioso mondo della
propria immaginazione.
E
per l’ambiente, oltretutto. Sembrava pensato apposta per lei quel concorso! Avrebbe urlato il
suo entusiasmo, baciato la prof, saltato per tutta l’aula dalla contentezza. Ed
invece non aveva il coraggio di muovere nemmeno gli occhi. E a paralizzarla non
era il disinteresse
dilagante nell’aula che avrebbe tagliato gli entusiasmi a chiunque
temesse di sentirsi diverso, a quello Cecilia c’era abituata per
bene e la veste dell’alieno non le andava più così stretta. Teneva gli occhi
bassi perchè aveva paura di incontrare quelli di Laura. Di Matilde non
le interessava niente, con quelli come lei aveva già vinto la sua battaglia: ora sarebbe
riuscita
perfettamente a non soffrire per qualunque cosa avesse potuto farle. Se
c’era o non c’era o se restava in bagno ancora
per un’ora o due giorni, poco le importava.
Era
Laura che temeva, quella Laura che ora le stava finalmente
vicina.
Come
lei, in piedi
accanto alla lavagna: il loro punto raccolta. La paralizzava l’idea che, alzando lo
sguardo, avrebbe potuto incontrare sul suo viso un’espressione anche solo neutra.
Il
suo più grande desiderio in quel momento era di vedere quegli occhi, di cui non
ricordava nemmeno il colore, brillare di gioia come i suoi: il solo
pensiero di dar vita assieme a dei personaggi usciti dalla loro
immaginazione
non poteva
lasciarla indifferente. Un pezzo di quella storia
viveva già dentro di loro. Ed anche se era
una storia lasciata, anzi interrotta, appena agli inizi, c’era,
esisteva ed urlava il suo desiderio di farsi raccontare. Possibile che
quell’urlo lo sentisse solo
lei?
Cecilia
alzò gli occhi, decisa a rompere quel ghiaccio che lei stessa aveva creato e parlò: «Pacific
vortex, ricordi? Noi l’idea ce l’abbiamo già, vero Laura?»
Laura
finalmente incrociò il suo sguardo e non esitò: «Sì, ma
parla piano, altrimenti ce
la rubano...»
le rispose sottovoce, sorridendo.
«Hai
ragione, magari le sirene si arrabbiano...» aggiunse
Cecilia, scoprendo tutte le sue carte. Laura rise e più che per la
battuta rise perchè era contenta, contenta che le sue sirene esistessero
anche
per Cecilia.
In
quel momento le due ragazze capirono di avere davanti a sé un
viaggio meraviglioso
da intraprendere assieme: iniziato tra i rifiuti dell’Oceano Pacifico, le avrebbe portate
chissà dove. Magari, perchè no,
proprio verso le coste
di Lampedusa. Dovunque fossero
arrivate,
comunque,
l’avrebbero fatto insieme. Primo premio:
un’amicizia vera.
Capitolo 3
PIEDI MOLLI
I
ragazzi disposero i banchi in gruppi di quattro come era stato loro comandato
e, quando il
fracasso di tavoli e sedie si fu attenuato, l’insegnante si rivolse agli
alunni: «Ora
ascoltate bene come
dovrete
svolgere il lavoro: prima di tutto avete bisogno di
una buona idea che piaccia a
tutto il gruppo. Mi rendo conto che questa decisione possa farvi impiegare un
bel po’di tempo. Pazienterò. Trovare il
soggetto giusto è molto importante »
Cecilia
e Laura si guardarono scambiandosi un sorrisetto vittorioso: sapevano di
avere un bell’asso nella manica. La buona idea, anzi la buonissima idea, era
già nel cassetto e che piacesse a tutto
il gruppo, a Matilde in altre parole,
non sfiorò minimamente il pensiero né
dell’una né
dell’altra.
Silvio
alzò la mano e domandò: « Prof, va bene una storia a
fumetti?»
Lo disse mentre
gli altri tre del gruppo gli tiravano la maglia e, tra risolini soffocati, gli
facevano cenno di
stare zitto.
«Mi
dispiace no»
rispose la Nivato «si tratta di scrivere un
romanzo, l’ho detto prima»
«Peccato» fece
Silvio. Una compagna nel frattempo aveva già fatto sparire sotto il banco il
foglio con un paio di simpatiche vignette che mostravano Jack, il pinguino
squartatore, in giro per i ghiacci con il coltello serrato nel becco e una
zampetta insanguinata
sotto l’ala.
«Vi può
essere d’aiuto pensare ad un ambiente da cui vi sentite attratti o meglio
ancora da qualcosa che vi piacerebbe comunicare in difesa del nostro pianeta» continuò
la professoressa,
tutta concentrata sulla sua proposta.
Il
gruppo che comprendeva le tre amiche di Matilde si mise prontamente all’opera ed iniziò col
prepararsi gli esercizi di grammatica per il giorno dopo. Anche gli altri
avevano formato dei gruppi di cooperazione altamente efficienti con ruoli ben
ripartiti tra chi svolgeva gli esercizi di
matematica e chi quelli d’inglese, in modo che ognuno potesse copiare
dall’altro, risparmiando tempo e fatica. Naturalmente
c’era anche il ruolo del palo pronto a far scomparire il corpo del reato nel
giro di un istante.
Solo
il gruppo di Silvio non era ancora al lavoro perchè Silvio, col suo pinguino,
continuava
a far perdere tempo a tutti gli altri che, di quel passo, non sarebbero mai
riusciti a liberarsi
dei compiti per il pomeriggio.
«Quando
avrete trovato un accordo sull’idea, iniziate a parlare a ruota libera, aggiungendo
tutti i particolari che vorrete sull’ambiente e la situazione iniziale. Più riuscirete ad
essere dettagliati e
più sarete in grado di condurre per mano...»
L’insegnante si interruppe per un istante e guardò verso la porta:
era rientrata Matilde. «...il
lettore ovunque
vorrete. Fatelo come un gioco a chi ne inventa di più, sentitevi
liberi e lasciatevi andare, vedrete che un’idea tirerà l’altra. Di fondamentale
importanza sarà il prendere appunti, altrimenti rischierete
di scordarvi tutto. Ruotatevi il
compito, così tutti potranno partecipare attivamente all’invenzione del
racconto. L’altro punto importante sarà la scelta del protagonista...»
Cecilia
e Laura erano incantate nell’ascoltare quella lezione di scrittura creativa
distratte
solo dalla loro stessa fantasia che viaggiava libera come il vento. Figuriamoci
se avrebbero
mai potuto notare Matilde che prendeva una sedia per accomodarsi accanto a
loro, un po’in disparte.
Solo
grazie a quegli unici due volti che mostravano per la sua proposta autentico
rapimento,
la professoressa riuscì a finire la sua
spiegazione e non certo con lo stesso entusiasmo con il
quale l’aveva iniziata. Dopo un po’ evitò addirittura di guardarsi troppo intorno, per
non rischiare di
demoralizzarsi.
«Al lavoro
adesso!»
disse praticamente rivolgendosi solo a Cecilia e Laura, visto che gli altri,
a loro modo, erano al lavoro da
un pezzo.
La
giovane
supplente avrebbe avuto una voglia matta di triplicare i compiti per casa, visto che
quelli assegnati erano fin troppo a buon punto. Sarebbe stato piacevole anche
interrogare
mezza classe su ciò che nessuno aveva ascoltato.
Una bella strage di due. Sarebbe
stato bellissimo. Note a casa, sul registro, perchè no: qualcuno
dal Preside.
Ed invece non fece niente e si limitò a sedersi sulla cattedra, fingendo di
guardare il registro e pensando a quelle lezioni universitarie che l’avevano
così egregiamente abbindolata: avrebbe sicuramente
dovuto rivedere alcune cosette
su quel suo bel metodo d’insegnamento appena nato e già defunto.
Cecilia
e Laura invece erano al settimo cielo, eccitate come bimbette davanti ad un giocattolo
nuovo ancora mezzo avvolto nella carta regalo.
Seguendo
il consiglio della Nivato, iniziarono col raccontarsi a vicenda ogni particolare
di quel loro mondo fantastico sospeso a metà tra acqua e rifiuti e le loro
parole fluivano come da
due copiose sorgenti in un’unica pozza cristallina.
Il
primo mattone fu di Cecilia, a seguire Laura, nella formidabile costruzione di
quel loro
strepitoso castello in aria, anzi in acqua.
«Erano lì
da sempre e s’erano viste aumentare a vista d’occhio quella massa di schifezze attorno a
loro»
«Tanto che
quelli più giovani credevano che stare in mezzo ai rifiuti fosse la normalità e che
forse si sarebbero annoiati avendo intorno a loro solo acqua»
«Addirittura
le giovanette
avevano imparato ad utilizzare a loro modo quell’immondizia, pensa che si
mettevano in testa delle specie di ornamenti fatti intrecciando i
sacchetti di plastica»
«E se i
ragazzi trovavano
dei fiori di plastica, poi, diventavano matti»
«Fiori
di plastica? I ragazzi?»
«Perchè
no? Ognuno ha le sue usanze.
Se li mettevano attorno al collo come gli hawaiani» specificò
Laura.
«Uh
che meraviglia, fiori di plastica attorno al collo... E se li legavano
attorno alle braccia e alla
coda,
anche se così facevano un po’ fatica a nuotare» aggiunse Cecilia
divertita.
«Sì, ma era
pazzamente alla moda»
«Molto
trendy erano anche i due contenitori di polistirolo a mo’ di reggiseno, al
posto dei conchiglioni di madreperla. Che hai? Fa tanto ridere?»
domandò Cecilia stupita dallo sguardo divertito di Laura.
«Sì, è
fortissimo. E difatti i conchiglioni erano roba classica, da antichi,
ai giovani faceva miseria»
«E ai
vecchi non piaceva niente come si
vestivano i giovani»
«Ma
dai! Come a mia mamma,
insomma»
«Sì, ma era
anche perchè i vecchi in quelle cose di plastica vedevano il male perchè quelle
cose tutte colorate che tanto piacevano ai giovani stavano invadendo il loro mondo
ed erano sicuri che avrebbero portato prima o poi a qualcosa di terribile» aggiunse
Cecilia più seria.
«Ma i
giovani dicevano che erano tutte invenzioni, solo per brontolare»
«I vecchi
dicevano che in pochissimo tempo quella massa di rifiuti che chiamavano...»
«Macchia»
decretò Laura.
«...Macchia?»
«Sì,
Macchia, perchè la vedevano come qualcosa di sporco e di sbagliato»
«Ok,
Macchia. I vecchi dicevano che la Macchia si ingrandiva e loro così erano costretti
ad allontanarsi sempre
più dal centro del loro universo, dove confluivano tutte le correnti,
dov’erano abituati a vivere da migliaia di anni.»
«Ma perchè
non potevano restare al centro?» l’interruppe Laura.
«Perchè c’era poca luce sotto
la Macchia, non si stava bene, anche perchè per emergere bisognava attraversare
trenta metri di rifiuti. Non sono trenta?»
«Sì, sì
trenta. Ma poteva essere divertente attraversarla, no?»
«A me
farebbe un po’schifo» commentò Cecilia.
«Lo
facevano apposta quelli giovani, si divertivano a prendere la rincorsa e ad
attraversare con
un unico slancio tutta la Macchia»
«Ma era
pericoloso?»
«No»
«Secondo
me, sì»
«Perché?»
«Perchè
quando sbucavano al di sopra dei rifiuti non sapevano più dove si trovavano»
specificò Cecilia.
«E non
potevano tornare giù?»
«Potevano,
ma non era tanto facile perchè in mezzo alla Macchia era facile
perdersi...»
«Dai,
facciamo che qualcuno si perdeva?» fece Laura, illuminandosi.
«Figo!»
Cecilia
e Laura si guardarono immobili per un istante.
«Uh...gli appunti...ce
n’eravamo dimenticate!» esclamò Laura con gli occhi tondi e una
mano sulla fronte.
«Completamente!»
Sembravano due corridori che,
partiti a razzo, si fossero dimenticati di prendere i tempi.
«E adesso
ci ricordiamo cosa abbiamo detto?»
«Guarda,
stanno tutti scrivendo! Tutti,
proprio tutti, le uniche a non organizzarci
siamo state noi...»
«Già, e voi
bla e bla e bla!» Matilde comparve
in quel momento seduta sul banco a fianco, come se si fosse
materializzata in quell’istante.
Furono
entrambe tentate di chiederle cosa diavolo ci facesse accanto a loro. Ma evitarono
la brutta figura,
ricordando con orrore che Matilde era in gruppo con loro ed aveva
tutto il
sacrosanto diritto di dire la sua. Così restarono zitte, come
sorprese con le mani nel sacco.
«Mentre voi
siete tutte prese dal vostro bla bla, io sto scrivendo da un
pezzo invece!»
«Cosa stai
scrivendo?»
l’assalì Cecilia, preoccupata.
«Gli
appunti di quello che state dicendo sto scrivendo! Visto che
non ho tutta la vostra fantasia, almeno faccio qualcosa»
Cecilia
ebbe l’impressione che Laura si sentisse
in colpa per averla esclusa e l’ascoltò farfugliare qualcosa
a metà tra un complimento e una scusa. Cecilia non aggiunse
nulla, spiazzata: sarebbe
stato impensabile, fino all’anno prima, immaginare un
comportamento del genere da parte di Matilde. Ma, forse, era maturata durante
l’estate, aveva riflettuto, le era morto il cane o chissà cosa non si sa,
fatto sta che
sembrava davvero un’altra e dava l’impressione di voler far parte sul serio del
loro gruppo.
«Ci faresti
leggere?»
chiese Cecilia garbatamente, alla fine di
quel rapido esame
di coscienza.
«Sorpresa!
Ve lo faccio leggere la prossima volta, così vi accorgerete che
senza i miei appunti avreste dimenticato tutto quello che avete detto» rispose
Matilde molto più riconoscibile, stringendo strettamente
a sé il suo block-notes.
In esso custodiva il frutto dell’impegno di quella mezzora di lavoro concentrato
e silenzioso:
le frasi in spagnolo alle quali stava lavorando fino ad un attimo
prima.
Cecilia
che, confidando in quella sua ipotetica redenzione, aveva messo da parte tutti
i buoni motivi per sospettare di lei, non reagì per nulla a quel bizzarro rifiuto, decidendo
che quello era lo scotto per averla giudicata male. Certo non era il caso di
gettarsi ai suoi piedi implorando perdono, ma con quegli appunti
provvidenziali, la sua
storica nemica si era guadagnata
un’incredibile nuova chance. Guardò Laura nella speranza di vedere insistere
almeno lei per
dare un’occhiata a quei fogli ma anche Laura se ne
restò muta. Nel sacco assieme a farsi compagnia.
«Va be’,
noi ci fidiamo allora, gli appunti li prendi tu» sentenziò
alla fine Cecilia.
«Vi fidate?
Grazie!»
rispose Matilde ironica, mostrandosi risentita per
quella fiducia accordatale un po’a denti stretti «faccio
finta di non aver sentito. Allora, procediamo?» domandò con
la penna pronta sugli esercizi di spagnolo «dov’eravamo
rimasti?
Vediamo un po’... ah sì che qualcuno si perdeva». Era
riuscita a giostrarsi egregiamente le uniche parole che aveva udito.
«Grazie
Matilde»
fece Laura sinceramente. Matilde si tenne il grazie
senza sentirsi per
nulla in colpa. Anche perchè quel grazie lo sentì appena, rituffatasi
subito
in un passaggio particolarmente delicato
della sua traduzione.
«La Macchia
era una trappola per quei giovani scavezzacollo»
riprese Cecilia.
«E
stavamo dicendo di mettere in pericolo qualcuno. Chi?» domandò Laura.
«Ma scusa
Matilde, cosa
scrivi di nuovo, se abbiamo ripetuto le stesse cose di prima?» domandò Cecilia, poi,
nel vedere Matilde assorta
nel suo scribacchiare, alzò un po’ la
voce:
«Ma
insomma, mi
stai a sentire?»
«Eh? Ma
cos’hai? Sto lavorando, non vedi? Perdo il filo se m’interrompi!» disse
Matilde come se
fosse stata distolta senza motivo da quel suo lavoro intrapreso con tanta
serietà. Cosa che,
per certi versi, corrispondeva alla pura verità.
«Io dico di
farci annaspare in mezzo proprio la protagonista» riprese
Laura, dopo aver lanciato a Cecilia uno sguardo di rimprovero per
quell’uscita ingiustificata verso Matilde.
«La
protagonista?»
«Sì,
femmina, se non ti dispiace»
«Non mi
dispiace affatto»
A
quel punto Matilde, nella mente di Cecilia, passò decisamente in secondo piano.
Si stava entrando nel cuore della questione, un cuore vivo e pulsante: il suo. Cecilia ce
l’aveva un’idea già molto precisa sulla protagonista.
Così
precisa che avrebbe voluto consegnarla a Laura già preconfezionata
con un bel cartellino: Non toccare. Non era
giusto e lo sapeva, ma temeva che sacrificare sull’altare
dell’amicizia quella sua creatura sul nascere, sarebbe stato un atto dalle conseguenze inimmaginabili. Tanto
che ebbe paura di continuare. Tanto che anche Laura
si fermò.
Nel lungo silenzio
che seguì, la tensione si stemperò proprio grazie a Matilde che
continuava a
scribacchiare senza sosta quando loro non stavano dicendo nulla.
Fu allora che la solerte scrivana, accorgendosene per caso, riemerse
dai suoi appunti.
«Beh? Avanti
con le idee! Altrimenti io che ci sto a fare? Non vorremo
farci
fregare dagli altri, vero?» esclamò indicando i compagni
che agitavano con grande impegno la penna sui
quaderni. «Oh,
non è che vi metto in imbarazzo? Quando non sapevate che scrivevo mi sembravate
più sciolte. Se volete smetto e cerco di dire anche io la mia, per quel
che posso. Magari
scrive una di voi, era stato anche detto di ruotare i
compiti, mi pare»
«No, no» si
affrettò Cecilia, presa in pieno nella rete.
«Adesso ci
concentriamo, scrivi pure tu, se non ti dispiace» ribadì Laura,
con altrettanta ingenuità.
«Io un’idea ce l’ho, sai...» fece
Cecilia decisa finalmente a vuotare il sacco «Mi piacerebbe come
protagonista una
sirena»
«Perfetto»
E fin
qua tutto bene, c’era da aspettarselo. I guai
cominciavano ora.
«Sì, ma...
non proprio normale»
«In che
senso?»
Cecilia
si sentì morire. Eppure Laura non aveva detto ancora nulla di preoccupante per
le sorti del suo personaggio. Non c’era ragione di soffrire a quel modo.
«In
che senso?» ripetè Laura, non sapendo come reagire a quell’espressione inquietante
che era apparsa sul volto di Cecilia. «Voglio dire...più bella, più brutta?»
«Più
brutta, forse. Brutta come sirena»
«Una sirena
brutta?»
chiese Laura
meravigliata, senza
nascondere la delusione.
Cecilia
si riscosse, non poteva arrendersi per così poco: «Sì, ma anche bella» specificò.
«Brutta
perchè era diversa da chi le stava intorno, bella perchè aveva
capacità diverse, che nessuna
delle sirene normali poteva
avere»
Laura
tacque.
Era
per interesse o quel silenzio preparava un imminente rifiuto e, peggio,
una diversa proposta?
A
Cecilia tremava
la voce e si vergognava terribilmente al pensiero che Laura se ne
accorgesse: «Immaginiamo
che un umano si accoppi con una sirena...»
Matilde
alzò gli occhi dagli appunti catturata
dai nuovi sviluppi dell’argomento.
«Qualche
dettaglio in merito? Se mi raccontate come fanno, giuro di non lasciare indietro
neanche una parola!»
A
Laura scappò da ridere. A Cecilia per nulla.
«Matilde,
mi fai concentrare?» esclamò con un tono durissimo,
sproporzionato. Laura trasalì. Matilde sorrise come chi la sa lunga sulla matta
che aveva a fianco.
«Dicevo, magari non è proprio
detto che salti fuori, come al solito, un essere
con il corpo da persona e la coda da pesce» riprese Cecilia,
imponendosi di ritrovare la calma.
«Già,
potrebbe saltar fuori un disgraziato con il corpo da pesce e le gambe da persona!
Posso scriverlo sugli appunti?» La sua stessa
battuta provocò a
Matilde un convulso di risate.
Pur non
avendo nessuno con il quale condividerlo, durò
troppo a lungo anche per Laura che, a quel punto, aveva decisamente rinunciato
a qualsiasi tentazione di prendere la cosa con un po’ di leggerezza ed aveva
quasi l’impressione che in un attimo quell’esercizio di fantasia si fosse
trasformata in una questione di vita o di morte.
«Posso
continuare?»
fece Cecilia gelida.
«Ma certo,
capo!» fece Matilde sull’attenti.
Cecilia
continuò con lo sguardo fisso su Laura: «Allora, da un’unione tra umani e
sirene potrebbe saltar fuori una mezza sirena. Una sirena con le gambe, ma
gambe non normali, strane, a mezza via tra gambe e coda,
cioè del tutto simili a gambe ma solo fino ai piedi. Piedi molli come una
coda, incapaci di sostenere il peso del suo corpo ma meravigliosi in acqua,
perchè possono muoversi agili quasi come quelli
di una
sirena. Ma quei suoi mezzi piedi, che tanto inorridivano i suoi
simili, avrebbero potuto aprirle nuovi orizzonti, se solo avesse
scoperto
che non esisteva
solo un mondo fatto di acqua. In un
certo senso era
più fortunata
perchè,
con un po’ di buona volontà, avrebbe
potuto
conoscere una realtà tutta nuova a cui non avrebbero mai potuto adattarsi
quelli del suo popolo»
Cecilia
finalmente aveva mostrato tutte insieme le sue carte e si sentiva fiera di
averlo fatto, di esserci riuscita, vincendo il timore di un possibile rifiuto.
Ora il responso, la sentenza.
Ma
non fu Laura a parlare, bensì Matilde, troppo divertita dallo stare al gioco
con quelle due matte: «Devo
proprio scrivere dei piedi molli? Mi
farebbe un tantino schifo, se permetti»
Cecilia
decise di lasciarsi andare alla sua visione. Era troppo
bella.
«La pelle del viso
e delle braccia era
liscia, morbida,
come la nostra, ma simile anche a
quella di un delfino
perchè bisognosa di costante umidità»
«Guarda che
io scrivo: pelle grigia come quella di un delfino»
«Ha detto
grigia?» intervenne Laura.
«No,
ha
detto a macchie bianche e nere come quella delle orche. Anzi, meglio...vellutata
come una megattera, le incrostazioni
gliele togliamo con un bel lifting...»
«Ma chiudi
quella ciabatta, la vuoi lasciar parlare?» sbottò Laura.
Troppo
felice per quella reazione inaspettata, Cecilia continuò
molto più serena:
«Dal
seno in giù
era coperta
di squame argentee e verdeazzurro ma solo fino all’inguine, quasi a
sembrare un costume intero molto attillato. Le squame
andavano
curiosamente a fondersi con la pelle delle gambe che tornava ad essere
simile alla nostra fino ai piedi-pinna, dove ricomparivano, sotto la
pianta, di nuovo le squame»
«Bellissima,
proprio bellissima» mormorò Laura fissando il vuoto. Vuoto riempito da quel
personaggio curioso e affascinante a cui anche lei già iniziava ad affezionarsi.
«Oh,
bellissima»
commentò Matilde con tutt’altro tono.
«Bellissima, cosa? L’idea?» domandò
trepidante Cecilia a Laura,
tappando i suoi timpani ad ogni vibrazione sonora proveniente da Matilde.
«Sì, sì
anche l’idea, ma dico, lei è bellissima, vero? Il volto, intendo?»
specificò Laura estasiata.
«Certo
che era
bellissima, bellissima come una sirena: aveva i capelli
verdeazzurro come le squame, iridescenti
come madreperla, no...non completamente, solo in un
ciuffo qui, da un lato» Cecilia indicò i propri capelli e Matilde non perse
l’occasione per sporgersi verso di lei ad osservarli ma non ebbe molta
soddisfazione perchè le altre due non la videro nemmeno «La sua
chioma foltissima, ondulata e lunga fino alla vita era bionda
perchè non era del tutto una sirena...gli occhi blu
cobalto,
profondi
come il mare, le ciglia e le sopracciglia blu
cobalto anch’essi,
i lineamenti
perfetti, labbra gentili e...»
«Verdi»
«Hai detto
qualcosa, Matilde?» disse Laura con piglio
arcigno, da vera guardia del corpo di quel
personaggio appena nato le cui sorti sembravano esserle diventate molto care.
«Ha detto
labbra verdi»
balbettò Cecilia
con la voce tremula
come avesse ricevuto la peggiore delle offese.
«Non posso
dire nemmeno verdi ? No, dico, vi ho offeso
perchè ho detto verdi?»
Cecilia
con gli occhi della disperazione, cercava
di mantenersi calma:
«No,
no...cioè,
certo che puoi anche dirlo» Nella sua testa
era improvvisamente balenato il rischio del tutto reale che quella
pericolosa scrivana avesse potuto
anche reclamare da un
momento all’altro il diritto alla rotazione dell’incarico. Doveva
assolutamente cercare di mediare, di assecondarla, di
darle almeno un contentino per tenerla
buona. Non era il suo stile, non lo era per niente, anzi quel suo
comportamento accondiscendente nei confronti
di quella sabotatrice di professione la faceva rivoltare ma allo stesso
tempo proprio non
se la sentiva di mettere la sua bella Scilli,
così sperava di poter chiamare il suo personaggio, in pericolo. Labbra gentili e verdi. Mai.
«Fatemi
capire, voi potete metterle i piedi molli, che mi
fa schifo solo a pensarli, e io
non posso metterle le labbra verdi?»
Non
faceva una piega. Cecilia
tacque perchè in una storia del genere non capiva più di
chi fosse il torto o la ragione. Fatto sta che quel verde
bisognava
toglierlo e a tutti i costi.
Idea:
mettere la faccenda
ai voti.
«Allora
votiamo, chi non è d’accordo per le labbra verdi?»
Laura
alzò la mano di scatto.
Matilde
le guardò con aria compassionevole: «Siete patetiche. Va bene, va bene, sono
in minoranza e lo sarò sempre quindi scrivo e scrivo. Gli appunti naturalmente,
che non potrò certo
aspirare al
ruolo di scrittrice con voi. Niente paura, c’erano gli schiavi una volta, no?»
Cecilia
capì che Laura, nonostante le divergenze,
si stava sentendo maledettamente in
colpa
per come stavano trattando chi, in fin dei conti, era il terzo membro del loro
gruppo.
È vero, stavano comportandosi
da grandissime prepotenti, pensò Cecilia, senza sentirsi sulle prime troppo in
colpa: Matilde aveva troppi debiti nei suoi confronti. Poi riflettè ulteriormente,
cercando di ragionare un po’ più col cervello che con lo stomaco: erano sufficienti le
malefatte trascorse a giustificare una dittatura del genere? In fondo fino a
quel momento Matilde era stata utilissima ed
anzi avrebbero dovuto esserle grate per quegli appunti che sulle prime aveva
preso di sua iniziativa. Magari era davvero cambiata, magari quella poteva essere
un’occasione per vivere un rapporto diverso, per scoprire una Matilde diversa.
Forse assieme a loro, se pur forzatamente, avrebbe
potuto far emergere la parte migliore di lei. Una parte migliore
tutti ce l’hanno. Bastava crederci.
«Va bene,
Matilde, facciamo come dici tu, aveva le labbra verdi» disse
Cecilia con una specie di nodo
alla gola.
«Pisello»
«Pisello?» esclamò
Laura.
«Verdi
pisello, io me le immagino così, che ci posso fare? Ed anche un po’ fosforescenti»
Cecilia
rimase sospesa tra i suoi buoni propositi e la tentazione di urlarle una
sintesi completa
di ciò che pensava. Ebbe quasi paura di se stessa, tanto che restò muta. Forse
per il momento
avevano lavorato abbastanza, avrebbero ripreso la settimana seguente nelle ore
di antologia
come aveva annunciato la Nivato.
Per
fortuna ci sarebbero stati gli appunti
di Matilde.
Capitolo 4
GLI APPUNTI
La
giovane professoressa alzò finalmente gli occhi dal registro.
In
realtà, davanti a quelle due pagine aperte sulla cattedra, non stava facendo o
guardando
nulla da un pezzo. I suoi occhi erano sul registro semplicemente perchè il
registro era sotto i suoi occhi. Ciò che stava fissando era lo sconfinato
deserto pedagogico
in cui l’avevano lasciata quelle due tragiche ore di ‘antologia’.
E
quel lutto gridava
vendetta.
«Bene,
tempo scaduto. Quel che è fatto è fatto, riprenderemo la prossima settimana»
Qualcuno
dei ragazzi l’ascoltò e storse il naso: non sarebbero riusciti a liberarsi
dei compiti
per il pomeriggio.
La
Nivato continuò: «Ora
ogni gruppo mi leggerà i propri appunti. Il voto va sul registro»
Lo
disse andando a prendere il registro dalla cattedra e lo fece con tutta calma,
immaginando,
con infinita gioia, veloci scambi di occhiate stordite dietro le sue spalle.
Assaporato a pieno quel magnifico gelo che andava calando dietro di lei, si avvicinò
con l’arma in mano ad uno dei gruppi.
Era
quello di Silvio ed il pinguino era ancora sul banco.
«Bene,
questo sarebbe il fumetto, immagino. Complimenti, una bella schifezza. Mi auguro che i
vostri appunti siano ben più interessanti. Chi di voi vuole iniziare a leggerli?»
I
ragazzi parevano statue di ghiaccio.
«Sto
aspettando»
Ancora
silenzio.
«Nessuno
quindi ha niente da leggermi?» Le sue parole stavano
uscendo
con un tono inatteso.
Perfido.
Nemmeno lei stessa si sarebbe aspettata che quella pentola a
pressione che aveva nell’animo potesse esplodere in modo così
inquietante, quasi
a sua insaputa. Ciò comunque le
piacque parecchio e le diede una forza nuova. Nuova e sinistra.
Continuò
pacata come dinanzi ad un esercito giunto alla resa a cui veniva richiesto di
consegnare le armi:
«I
vostri nomi e cognomi, uno alla volta»
Apprezzò
quindi tutte le sfumature del terrore in quelle due parole che ognuno dei quattro
ragazzi fu costretto a proferire e, percependo esattamente la fatica di ognuno di
loro nel gestire il proprio nodo alla gola, appioppò, e
senza batter ciglio, i primi due.
«Sarà dura
per voi rimediare la sufficienza per il primo quadrimestre. Con un due...vediamo... la prossima
volta dovreste prendere...non meno di dieci»
E si
avvicinò al gruppo accanto.
«Allora,
anche voi avete da mostrarmi un bel fumettino come quello?»
Prese dal banco di una ragazza il quaderno
degli appunti. Lo sfogliò, accorgendosi
immediatamente che esso non conteneva nulla che riguardasse il lavoro proposto.
«È qui che hai scritto gli
appunti? O...qui?» La sua mano era andata
velocemente a posarsi sul
quaderno di matematica che stava sotto al blocco degli appunti.
«Dimmi,
quanto c’entrano i poligoni irregolari col racconto e ti risparmio il due sul registro»
La
ragazza biascicò qualcosa del tipo: prof,
ci abbiamo provato, non abbiamo avuto nessuna
idea...Ne abbiamo
avute troppe fece in contemporanea il
ragazzo al suo fianco. L’insegnante
stava già con la penna sul registro.
E
toccò al gruppo delle grandi amiche di Matilde: Fiorenza, Annalisa e Raffaella. Annalisa
accolse l’insegnante con un’inattesa espressione serafica.
«Prof
abbiamo avuto un’idea bellissima, ci abbiamo lavorato tutte e siamo anche ad un
ottimo
punto. Se vuole gliela racconto»
«Gli
appunti»
tagliò corto la Nivato che si era finta cieca per
tutto quel tempo
accorgendosi invece perfettamente di quanto zelo avessero
dedicato a tutto fuorchè a ciò che riguardava la sua proposta.
«Posso
raccontargliela perfettamente, professoressa. Ci ricordiamo tutto, dovevamo
metter giù le idee per iscritto proprio adesso...ma, sa com’è, nella foga. Allora...c’era
un
gabbiano che volava beato, un brutto giorno si appoggia sul mare, senza accorgersi
che c’era una macchia tutta nera e sa cos’era? Petrolio! Prof... cosa sta
facendo?»
La professoressa
aveva già impugnato la
penna,
quando pensò che in quell’occasione poteva anche
cercare di divertirsi un po’di più.
«Facciamo
parlare un po’ lei, invece. Continua pure» Aveva indicato Raffaella.
La
ragazza sbarrò gli occhi e rivolse uno sguardo supplichevole ad Annalisa,
aprì la bocca ed emise un suono che non si tradusse in nessuna parola
comprensibile.
Annalisa
intervenne prontamente: «Ma daì,
non ti ricordi? Chi l’aveva detto? Ma sì, Raffaela! Basta che
pensi a cosa ha detto Fiorenza e vedrai che ti viene in
mente tutto!»
Annalisa,
con quella mossa, aveva cercato di prendere un po’ di tempo, nella
speranza che il cervello di Raffaella si prendesse cura in fretta
di quello stupido gabbiano sul
petrolio. Ma ahimè, la poveretta
annaspava tanto quanto il suo gabbiano e non ci fu niente da fare nè per l’uno
nè
per l’altra. Il pensiero di Annalisa andò a
Matilde: con lei se la sarebbero cavata, accidenti.
«Bene,
Fiorenza, tu ti ricorderai senz’altro di quello che hai raccontato alle compagne, no?»
Fiorenza
in queste circostanze era in genere un po’ più sveglia di Raffaella ed
Annalisa ebbe qualche speranza nelle sue capacità d’improvvisazione.
«Certo prof
»
rispose Fiorenza con una certa disinvoltura «allora...il
gabbiano era tutto
imbrattato di petrolio, poverino»
«Già,
poverino»
aggiunse la professoressa spietata.
«Era tutto
nero»
Pausa «Nero come la pece» Lunga pausa «Come il petrolio, insomma». La Nivato
godeva e le tre compagne, guardando gli occhi fissi di Fiorenza, cominciarono a rassegnarsi all’idea di quel due che si stava avvicinando con pericolosa velocità.
Poi
una luce nello sguardo della ragazza: «Il
petrolio, ad un certo punto, si trasformò in
un’immensa torcia che arrivò fin quasi a lambire l’infelice»
Gli
sguardi delle compagne, alla luce di
quelle fiamme, sembrarono
riprendere vita.
«Il
poveretto, tutto imbrattato, iniziò a dimenarsi, ma più si
dimenava e più s’imbrattava. E adesso arriva il bello. Ecco che proprio in quel
momento
giunse...»
«Basta
così, ora vai avanti tu»
Gli
occhi della professoressa si erano posati sull’ultima componente del gruppo,
quella che aveva soffiato il posto a Matilde. Era diventata bianca.
«Ti chiami?»
«Marianna» rispose
in un sussurro.
«Cognome?»
«Ferro» Un altro
sussurro.
«Me lo vuoi
dire questo bello che arriva in cosa
consiste? Sono curiosa, sai » Nel cervello di
Marianna disgraziatamente non si muoveva nulla. Annalisa pensava a Matilde con
infinito rimpianto.
«Arriva
questo bello o non arriva?» Continuò
la Nivato, catturata dalla sua stessa
spirale di vendetta. Ed intanto faceva scorrere il
dito sul registro.
«Se vuole
glielo racconto io, mi è venuto in mente benissimo» cercò di
intervenire Fiorenza.
«No, no. Me
lo racconta proprio Marianna.»
«Ah, sa
cosa, prof ? Poveretta, era quel momento lì che era andata in bagno» intervenne Annalisa,
lanciandosi al salvataggio.
«E si è
persa il bello? Ma che
peccato!» ed
aggiunse,
tornando ad infierire su Raffaella:
«Scommetto
che anche tu eri in bagno». Quest’ultima iniziò
quasi a piangere, stava malissimo tanto
che la professoressa pose fine alla tortura e si avviò a concludere
l’esecuzione.
Scrisse
sul registro altri quattro due e
cambiò tavolo.
Il
tavolo di Cecilia.
Cecilia
aveva seguito la scena esterrefatta: mai si sarebbe aspettata che la ragazzina
vestita
da professoressa per qualche imprecisato incantesimo potesse tramutarsi
di colpo in una temibile strega torturafanciulli. Che i fanciulli se lo meritassero
in pieno questo era un altro paio di maniche, fatto sta che, pur sentendosi
orgogliosa del proprio lavoro, aveva anche
lei iniziato a lottare contro la propria agitazione, completa di vampate e
batticuore.
«Riuscite almeno
voi a leggermi
qualche appunto ben fatto?» chiese la professoressa
animata stavolta da reale speranza. Aveva osservato il gruppetto e non le era
sfuggito il profondo
impegno con il quale quelle due ragazze, che l’avevano seguita con
tanto interesse
durante la spiegazione, si erano
dedicate a quel gioco di fantasia.
«Certo» disse
Laura,
come chi, con un poker in mano, non sta nella pelle di scoprire le proprie carte
«vi
sta bene se leggo io gli appunti?»
Cecilia
annuì: era contenta perchè a lei sarebbe sicuramente tremata la voce. Per fortuna
c’era Laura.
«Me li dai?» chiese a
Matilde.
«Un attimo» rispose
Matilde a Laura che stendeva la mano verso di lei.
Matilde
sfogliò ad una ad una le pagine del suo block-notes. Le
sfogliò in avanti, le
sfogliò indietro in un silenzio imbarazzante. La professoressa, per il momento,
continuava a tacere con gli occhi fissi su quei fogli ispezionati innumerevoli
volte con calma e
perizia, come fossero sotto le mani di un’investigatrice esperta.
Poi,
freddo, il responso: «Professoressa, ecco»
Matilde
porse alla professoressa il block-notes, aprendolo
bene nel punto dove si inserivano i
fogli. «Vede
prof ?»
«Cosa?» rispose
la giovane supplente quasi con candore.
«Le vede
queste tracce tra un foglio e l’altro?»
La
professoressa prese il blocco e lo esaminò a sua volta nel punto indicato.
«Ha capito
adesso ?»
Il tono sfiorava l’inquisitorio e per un attimo sembrò che le parti potessero
invertirsi.
«Sembrerebbe
che fossero state strappate delle pagine» rispose l’insegnante, arruolata lì per
lì nella squadra investigativa di Matilde.
«Quelle
pagine erano i miei appunti, quelli che io ho scritto con queste mani, professoressa,
e io non so, ripeto
non so,
chi abbia potuto strapparli a mia insaputa» Nel far
questo aveva
diretto un’occhiata pericolosa verso Cecilia. Particolare che non potè sfuggire
nè a Laura nè alla
supplente.
«Sentite un
po’, voi due, ascoltatemi bene perchè ora voglio una risposta precisa» La
professoressa, rivolgendosi a Laura e Cecilia, sembrò finalmente essersi riappropriata del
proprio
ruolo e ciò suonò alle due inquisite paradossalmente più rassicurante.«Io vi ho
visto lavorare con i miei stessi occhi e mi è parso di capire che a
prendere gli appunti fosse in effetti Matilde» Cecilia e
Laura annuirono in silenzio. «Io vi domando: li
prendeva sul serio?»
Laura
partì a razzo: «Certo
che li prendeva, sotto i nostri occhi li prendeva, addirittura ha
iniziato a prenderli prima ancora che glielo dicessimo, è stata brava, altrimenti
avremmo perso tutto l’inizio. No, professoressa, si sbaglia se crede che non
abbia lavorato. Non
si è persa una parola, se davvero non ci sono più lì dentro, vuol dire che
qualcuno li ha strappati, accidenti! Abbiamo detto una marea di
cose e mi secca proprio perchè adesso non so se ci ricordiamo tutto, vero
Cecilia?»
Cecilia
taceva.
«Vorrei
proprio sapere chi è stato»
continuò Laura
inarrestabile: «qualcuno
di invidioso
verso di noi che abbiamo voglia di fare, ecco! Bisogna trovarli questi fogli,
posso andare a vedere nel
cestino, prof ?»
«Non
occorre che ti scomodi» disse Matilde gelida, sempre
fissando Cecilia «gli appunti
c’erano, fino a quando li ho appoggiati sul banco. Esattamente
qui»
Ed indicò un punto all’estrema destra del proprio banco «e cioè,
nel momento preciso in cui lei, professoressa, ha
detto di smettere di lavorare»
«Spiegati,
Matilde, cosa vuoi dire?» intervenne la professoressa,
incerta se dare un qualunque
taglio alla faccenda o farsi coinvolgere da quelle appassionanti indagini.
«Voglio
dire che dopo che lei ha parlato, dai banchi non si è mosso
nessuno. Credo che ce
lo ricordiamo bene perchè nemmeno una mosca volava mentre lei girava col registro»
La
classe iniziò a rilassarsi, molti annuivano, qualcuno, addirittura, osò qualche
piccolo commento. La nota di classe era stata evitata e l’eventuale punizione
sarebbe toccata ad
una di quelle tre. Poco male.
«Matilde,
parla chiaro, cosa vuoi dire?»
«Io non
voglio dire niente, prof. Dico solo che qui dentro probabilmente ci sarà
qualche folletto dispettoso. Lo chieda a Cecilia, lei forse
se ne
intende. Di folletti, dico.»
Laura
si girò verso Cecilia e la guardò come fosse diventata di colpo una persone
diversa.
«Cecilia...tu...non è che
tu...»
«Cosa TU?
Cosa vorresti dire, dillo dai!» sbottò
Cecilia che sembrava a quel punto davvero un’altra. Quel TU le
era arrivato come una pedata sullo stomaco e ne
era ancora tutta scossa. È vero: le
era passato per la testa il sospetto che davvero fosse stata Cecilia.
Imperdonabile se Cecilia a quella storia fosse stata totalmente
estranea. Ma
c’erano quelle labbra verdi che
bruciavano come ferite aperte
e l’antipatia profonda verso la compagna che sembrava aver radici forti e
dolorose tanto da non escludere rivalse di qualsiasi genere. In
fondo non la conosceva per nulla.
«Scusate ma
io non capisco più niente» decretò alla fine Laura.
«Brava! Chi
non ha capito niente è meglio che tenga chiusa la bocca.
Potrebbe dire stronz...»
«Cecilia
Fillini,
stai esagerando, guarda che il due te lo
metto in condotta!»
«E io dico
invece che hai capito fin troppo, Laura» replicò Matilde veloce
come
un serpente.
Laura vide a quel punto che lo sguardo di Cecilia la
stava trapassando da parte
a parte. Il
linguaggio di quegli occhi era chiaro e non andava per mezzi termini: difendimi
o è finita.
«Cecilia...io...io
non volevo»
«Non
volevi...cosa, Laura? Dai,
vai avanti»
intervenne Matilde «non avresti mai voluto dire
davanti a tutti quanto sono stata trattata da schiava, forse? Voi ad inventare, a
divertirvi
e io a scrivere quello che dicevate, senza poter mai alzare gli occhi dal
foglio. Sissignore, signorsì, che se qualche volta osavo dire la
mia, oddio, apriti cielo!
Se non è vero, per favore Laura, apri
la bocca e dillo!»
Laura,
presa tra quei due fuochi ardenti, non ebbe la lucidità per dire nulla, anche
perchè
Cecilia non gliene volle lasciare il tempo, rivolgendosi a
Matilde con ferocia: «Non
osavi dire
la tua? Non dirmi che veramente pensavi di blaterare qualcosa di
buono con le tue labbra verdi pisello fosforescente? Ti credevo una gran furba e
non una povera
testolina!»
La
professoressa aveva assistito a quel furioso battibecco da perfetta spettatrice
e,
abbandonato nuovamente
il
proprio ruolo,
continuò a seguire la vicenda come travolta da qualcosa di
più
grande di lei.
«I piedi molli invece
sono da gran scrittrice, no? Ma cala un po’ quelle ariette da genio incompreso,
ci hai sempre snobbato, tutti quanti! Sa, prof, Cecilia non si mischia con
noi, poveri ragazzi stupidi. Attenta, Laura, perchè tu non la conosci, noi,
invece, sono due anni che sopportiamo i
suoi tiri da pazza. Lei viaggia alto, se ne sta a mezzo metro da terra e ci
guarda tutti dall’alto. Figuriamoci, prof, se un’umile mortale come
me poteva dire mezza parola sulla sua storia meravigliosa! E io
la mezza parola, ma solo mezza, che altre non me le ha lasciate dire, invece
l’ho detta. E’andata su tutte le furie che quasi piangeva...e
sa perchè?
Perchè sapeva che sarebbe stato suo dovere far parlare anche me, l’aveva
raccomandato lei
stessa, se lo ricorda, prof ? Vuol sapere come la penso sui miei foglietti
scomparsi? Le sarà venuta una crisi di nervi e, in uno scatto da fulminata,
avrà strappato tutto. Dillo tu Laura se non
è vero, se non diventava di
tutti i colori quando io provavo a dire la mia!»
Laura
tacque ancora e a Cecilia parve quel silenzio più lacerante di tutto quello che
aveva
sentito da Matilde sul suo conto.
«Anzi no,
prof »
affondò Matilde «Lo
so, è brutto da dire ma forse si è fatta furbetta ed
invece di perdere le staffe come al solito, senza combinare un fico secco,
stavolta ha fatto di meglio»
Suonò
la campana della ricreazione. Contrariamente al solito, sembrò che nessuno l’avesse
sentita.
Nel silenzio ancora intatto Matilde riprese: «Non li ha
strappati i miei appunti. Se
li è tenuti, perchè le facevano assai comodo, ma li ha
fatti sparire per far credere che fossi stata io a strapparli. Per cosa poi
avrei dovuto farlo, non si
sa»
Cecilia,
in un istante capì che, se non reagiva in tempo, oltre ad aver perduto gli appunti,
il suo meraviglioso mondo di sirene e quel piccolo seme d’amicizia in cui aveva
tanto creduto, paradossalmente correva il rischio di procurarsi anche un due sul
registro
con tanto di nota sul comportamento.
«Per cosa
avresti dovuto farlo, sarebbero stati affari tuoi» sentenziò
Cecilia più che mai determinata «che quegli appunti in realtà
non li hai mai scritti, invece, se permetti, sono proprio affari miei. Cosa
scrivevi davanti a noi, nascondendoti il quaderno? Verbi? Espressioni?
Vocaboli d’inglese? Tu vuoi far fessi tutti quanti. Mi perdoni, prof, lei compresa»
La
professoressa aprì la bocca, pensando che avrebbe dovuto reagire in qualche
modo, ma Cecilia fu più veloce di lei perchè volle rispondere subito allo
sguardo attonito
di Laura, che sembrava cadere dal cielo in quel medesimo
istante: «Tu
non sai, Laura, non hai idea, non hai la minima idea di quello che Matilde può
essere in grado di fare. Non ce l’ha nemmeno lei,
professoressa ma le posso dire che va al di là di qualsiasi immaginazione.
Dimmi, Laura, quegli appunti li abbiamo mai
visti noi, con i nostri occhi? Diglielo alla prof se li hai mai visti, o se
invece Matilde si è tenuta stretta quei fogli con su scritto chissà cosa, senza
farcene mai vedere nemmeno una parola!»
«Li hai visti o non li hai
visti, Laura?»
fece allora la professoressa, tornata per un istante al suo
posto.
«No» rispose
la ragazza con un filo di voce.
La professoressa, a quel
punto, avrebbe volentieri ceduto la cattedra per uno qualsiasi di
quei banchi. La cedette invece e con sommo piacere all’insegnante dell’ora
successiva. Questa, invece che dal consueto chiasso da ricreazione inoltrata, fu
accolta da un’atmosfera da Corte Giudiziaria e, un tantino imbarazzata,
domandò: «Disturbo?»
«No, no,
ora fanno ricreazione»
Detto
ciò, la supplente salutò cordialmente la collega e se ne andò come se nulla fosse.
In fondo lei poteva cambiare aula, pensò Cecilia.
Capitolo 5
DESTINAZIONE SCONOSCIUTA
Cecilia, uscita da
scuola, lungo la strada che la riportava a casa, ripensava a quella mattinata
sconvolgente in cui aveva trovato finalmente un’amica e nel giro di poche ore
l’aveva anche persa.
Ma
possibile che, come Laura, dovesse rinunciare anche
a Scilli?
Scilli
no. Scilli poteva essere salvata. Lei la poteva salvare, da sola l’avrebbe fatto, perchè era
creatura sua e lei aveva il potere di farla vivere e di renderla felice. Al
diavolo il concorso, al diavolo Lampedusa, le amiche e l’amicizia: Scilli
doveva vivere, Scilli
doveva essere felice quanto lei non poteva esserlo. Per questo avrebbe dedicato
il suo tempo a scrivere, per
conto suo, senza bisogno di nessuno, perchè quella sirena
disgraziata
potesse scappare da
quel mondo ostile, fatto di rifiuti profondi trenta metri.
Fuggita attraverso l’oceano, sarebbe giunta là, dove avrebbe trovato un mondo
tutto diverso che l’avrebbe accolta ed amata.
Quei
pensieri erano così intensi e profondi che ben poche cose al mondo avrebbero avuto il
potere di distrarla. Nemmeno l’aver continuato dritta per una strada che non
c’entrava niente col suo percorso abituale, mentre avrebbe invece dovuto
svoltare a destra
verso casa.
Quel
potentissimo qualcosa invece le si presentò davanti ed ebbe la facoltà di
cancellare dalla
sua mente ogni pensiero precedente.
Si
chiamava Nicola e lei conosceva quel nome non certo perchè ci fossero state
delle presentazioni, ma perchè l’aveva letto nella sua tesserina della
biblioteca dimenticata
per qualche istante vicino allo schedario presso il quale Cecilia sostava, in
attesa della bibliotecaria. Fu quel fatidico giorno in cui lo vide per la
prima volta
mentre cercava l’ultimo di Harry Potter. Caso volle che fossero lì insieme proprio
per lo stesso libro e lui fu così gentile da
cederglielo. La cosa parve a Cecilia talmente inaudita,
viste le infelici esperienze con i coetanei della sua classe, che ne
restò profondamente colpita.
Senza fiato ci restò anche per un altro motivo, quello però era un po’
più
difficile da individuare. Non
era sicuramente così bello
da far schiantare al suolo le ragazze ma in lei aveva prodotto e continuava a
produrre esattamente
quest’effetto.
Non
c’era Laura, Matilde o anche Scilli che tenesse al confronto, tutto passò in
secondo piano in quell’attimo in cui si accorse della sua presenza. E anche
stavolta temette seriamente di
liquefarsi ai suoi piedi.
Il
ragazzo, incontrandosela proprio davanti mentre tornava a casa assieme ai suoi
compagni
di classe, non la ignorò. Persino la salutò e ciò fu assolutamente troppo. Un astronauta
appena atterrato
sulla Luna non avrebbe potuto avere
un’espressione più spaesata di quella di Cecilia in quel momento.
Lo
sguardo che doveva aver fatto, scoprendo lì per lì di non essere
sulla strada giusta e di non sapere
nemmeno dove si trovava, doveva
essere apparso a quel gruppetto di un’irresistibile comicità.
Risultato: lui passò avanti, lasciando dietro di sè l’eco
delle risatine dei suoi compagni
senza che lei fosse nemmeno riuscita a rispondere al suo saluto. E
siccome non aveva senso proseguire, perchè di lì non andava certo a casa, e
nemmeno tornare indietro, con l’altissimo rischio che si credesse ad un
inseguimento amoroso, se
ne restò ferma sul posto per un’infinita manciata di secondi. Quelli bastevoli
a scatenare una
nuova tranche di risatine in chi l’aveva tenuta
scrupolosamente sotto controllo.
Troppo
per una sola mattinata. Non vedeva l’ora di tornare a casa e mettersi a piangere
sul cuscino e ricevere un bacio dalla mamma che l’avrebbe consolata e alla
quale non avrebbe
raccontato niente. Poi sarebbe arrivata sua sorella che avrebbe voluto
inventare con lei una storia con le barbie, avrebbe fatto i compiti e prima di
coricarsi
sarebbe andata avanti con Eragon fino a sentirsi chiudere dal sonno le
palpebre. Sarebbe
stato bello, bellissimo, ciò che di meglio potesse chiedere al mondo. Ma per il
momento era impossibile: doveva andare avanti per quella
strada sconosciuta visto che star ancora lì piantata in mezzo era la peggior
cosa che potesse fare.
Andò
avanti per un centinaio di metri finchè la strada si strinse chiudendosi
con un paio di villini. Una ragazza seduta sul gradino del portone, con la
testa reclinata in
avanti fino ad appoggiarsi
sulle ginocchia, sembrava curiosamente voler schiacciare un pisolino. Aveva i
capelli identici a quelli di Laura. Ne riconobbe i calzoni e le scarpe. Era
Laura e stava piangendo.
«Cecilia!» le gridò
come al cospetto di un angelo.
Cecilia
non rispose e non si mosse.
«Cecilia,
grazie...sei venuta, non me l’aspettavo» esclamò alzandosi e
correndole incontro. Che
Laura pensasse che era lì per lei era l’ultima disgrazia che poteva capitarle
in una giornata come
quella.
«Ma come
sapevi che abitavo qui?» fece Laura con un sorriso
fino alle orecchie.
Cecilia non lo sapeva e non
se l’era nemmeno domandato. Prima di tutto la finta
amica che stava accogliendola con tanto ardore, amica
stupida, amica traditrice, non
c’entrava nulla con la sua presenza lì in quel momento: per distrazione o
disperazione, per
errore o per amore, per mano di una fata o di una strega. Certamente non era
lì per lei.
«Cecilia,
durante l’ora di geometria ho riscritto...anzi scritto, tutto quello che abbiamo
detto»
Brava
furba, voleva dirle, proprio la lezione prima della verifica. E per ottenere
cosa, visto
che non aveva più nessunissima intenzione di lavorare con lei?
Quella
semplice rettifica, però, a proposito dello scrivere
e
del riscrivere i
famosi appunti
le parve ad un tratto più sostanziale di quanto le fosse apparso sul momento.
Laura aveva
quindi creduto alla sua versione, non a quella di Matilde e si
era finalmente persuasa che quella
grandissima imbrogliona le avesse prese in giro entrambe, scrivendo
chissà cosa al posto degli appunti. Aveva capito anche Laura che
la mascalzona, vistasi
persa, aveva capito che,
strappando due pagine a caso a loro insaputa,
sarebbe riuscita ad evitare quel due dal quale
non erano sfuggite
nemmeno le sue scaltre compagne. Nel contempo avrebbe creato
problemi a chi avanzava da lei più di una rivincita, roba da vantarsi per un
anno intero.
E
Laura aveva capito di essere stata usata.
«A scuola
non ho neanche avuto il coraggio di parlarti. Guarda, ho il cellulare in
mano. Volevo chiamarti ma poi mi sono ricordata che non avevo nemmeno il tuo
numero e il pensiero di
trascorrere il fine settimana con questo peso, mi ha fatto andare in crisi. Invece tu mi
hai cercato e mi hai trovato. Come hai fatto non lo so, so solo che sei grande!
Hai già avvertito a
casa? Dai,
vieni su da me, che ci mettiamo subito a lavorare, lunedì portiamo alla prof
le nostre idee così
possiamo iniziare subito a mettere giù tutto bene come
delle scrittrici. Non
credi che un mese sia un
po’ poco?»
Cecilia
le sorrise: quell’onda anomala l’aveva travolta a tal punto da dirigerla dove
mai avrebbe creduto. Forse a prenderla per mano era stata una fata.
Cecilia
fu presentata alla madre di Laura come la più grande delle amiche e come tale
fu accolta.
«Vedi» disse la
mamma «mi
avevi raccontato che era una classe atroce. Ma come facevi a
dirlo! Era passato troppo poco tempo. Ma lo sai Cecilia, Laura non ha ancora
perdonato mamma e papà
per questo trasferimento: nuova casa, nuova città, nuova classe purtroppo,
guarda ho ancora la casa piena di scatoloni. Stava troppo bene con i suoi
compagni, un vero peccato, pensa che aveva addirittura il ragaz...posso
dirglielo? E’ la
tua migliore amica, no?»
«Ma mamma!» esclamò
Laura un po’imbarazzata.
«Va bè, te
lo dice lei, tanto è acqua passata mi pare, comunque io l’avevo detto:
aspetta almeno un mese prima di dare certi giudizi. Come vedi, le persone in
gamba ci sono dappertutto, basta
non chiudersi a riccio, no?»
In
risposta a quel no, Cecilia avrebbe voluto parlare di una valanga di cose: fatti, speranze,
delusioni, soprattutto delusioni. Così tacque, sorridendo stupidamente
dove non c’era niente da ridere. Un sorriso bugiardo che le fece sperare
che quella signora un po’invadente se ne tornasse al più presto a disfare scatoloni.
«Vieni, ti
faccio vedere la mia camera» tagliò corto Laura.
Facendosi
largo tra gli scatoloni accatastati lungo il corridoio, Cecilia raggiunse la camera
di Laura.
«Scusa il
disordine ma hai visto come siamo sistemati. Il papà mi ha montato il computer solo
due giorni fa. Sediamoci sul letto che la poltrona è piena di roba» E si
affrettò a chiudere la
porta.
Quando
Cecilia fu sul letto accanto a Laura, capì che non poteva tirare ancora avanti
con quella farsa. Perchè di farsa si sarebbe trattata fino al momento in cui
non si fosse decisa a
far luce su ciò che era successo in quell’assurda mattinata. Ma Laura la precedette.
«Matilde è
stata diabolica. Ha incastrato me, la prof, tutti...me l’avevi anche detto che era
una gran furba ma come si fa ad immaginare un livello simile?»
«Bastava
avere
un po’ più
fiducia in me di quanta me ne hai dimostrata»
«Sei
arrabbiata? Tanto?»
Cecilia
fece una smorfia indefinibile.
«Dì la
verità, sei venuta qui per urlarmi di tutto, vero? Sai cosa ti dico? Avresti
avuto ragione ed anzi, se vuoi, sei ancora in tempo a farlo. Ma magari fai alla
svelta»
aggiunse sorniona «che così ci mettiamo presto a
lavorare»
Cosa
poteva mai rispondere a quel punto? Forse il motivo, o il
nessun motivo, per cui
era là non valeva poi la pena di essere approfondito, così diede un taglio
netto alla questione:
«Faccio
talmente presto che non inizio nemmeno e cominciamo a lavorare
subito, ti sta bene così?»
«Aggiudicato!» rispose
Laura, levandosi dal letto. Talmente alleggerita da quel
peso che si portava dentro,
si alzò con uno scatto sproporzionato per andare saltellando
verso la
cartella. Vi
scartabellò dentro ed estrasse alcuni fogli con quegli appunti realizzati
sacrificando
all’arte e all’amicizia la sua verifica di geometria.
«Spero di
non essermi dimenticata niente.»
E
lesse:
Codabrutta non era brutta:
era così che la chiamavano.
Nemmeno la coda di Codabrutta non
poteva essere brutta perchè non era affatto una
coda ma due gambe. Due
gambe bruttine, fino al polpaccio esili ed eleganti ma con
caviglie decisamente
troppo snodate che potevano piegarsi mollemente a
destra e a sinistra, avanti e indietro con un giro completo di 360
gradi. E questo perchè non erano sostenute da ossa ma da una struttura
cartilaginea. I piedi poi, ricoperti sotto la pianta da squame, sembravano molto
più pinne che piedi.
Gambebruttine avrebbe potuto dirlo un umano ma per il momento non
c’era questo pericolo: Codabrutta viveva in mezzo a Sirene e
Tritoni e gli umani non li aveva mai visti. Agli occhi delle sirene comunque doveva apparire
qualcosa di veramente
orribile. Una
forma mostruosa e inquietante che nessuno di quell’antico
popolo del Mare, fatto di Sirene e Tritoni,
riusciva ad apprezzare per le originali capacità di cui
quel corpo strano
era dotato.
Cecilia
aveva ascoltato con la bocca semiaperta dallo stupore. Avrebbe voluto dire mille
cose ma quel pozzo di sorprese che leggeva, inarrestabile come un treno, non
glielo permise.
Si augurò solamente che il capolinea non si trovasse alla fine di quello che
avrebbe dovuto essere il loro romanzo.
Ma in realtà Codabrutta era
bella, molto bella.
Dalla vita in giù era coperta
di squame ma solo fino all’inguine,
quasi a sembrare un costume intero molto attillato che
stranamente andava a fondersi con la pelle delle gambe.
Proseguendo verso il
basso, la sua pelle tornava ad essere simile a
quella umana. Fino ai piedi-pinna, dove comparivano sotto la pianta di nuovo
squame viscide e
argentee.
La chioma ondulata era lunga
fino alla vita e foltissima. Era bionda ma aveva ad un lato
un ciuffo verdeazzurro, dai
riflessi iridescenti come madreperla. Aveva gli occhi blu cobalto, profondi e misteriosi come il
mare, anche ciglia e sopracciglia erano
blu
cobalto, come disegnati dalle mani di un artista.
Si
era risparmiata i particolari sulla bocca, Cecilia gliene fu grata.
Il suo era un popolo antico,
il primo ad essere
comparso sulla
Terra precedendo anche le forme umane terrestri, ed era lì da
sempre al centro di quelle correnti che
nell’Oceano Pacifico formano un immenso vortice a spirale, un incontro
di acque diverse
provenienti da molto lontano. Erano
quelle correnti a fornire loro una migliore ossigenazione dell’acqua, ideale
per il loro particolare sistema respiratorio dove i polmoni erano
internamente affiancati da vere e proprie branchie ed erano raramente usati in
favore di queste ultime.
Non avevano bisogno di uscire dall’acqua per respirare
quindi
ed era raro che lo facessero. Prima di tutto perchè non lo trovavano per nulla
piacevole. Non c’era nulla di così interessante da
fare o vedere
che valesse il sacrificio: cielo, nuvole, onde, uccelli...un mondo bizzarro che
poteva avere solo il fascino della novità ma che non poteva giustificare il
fastidio, quasi il dolore del sole negli occhi, il respiro affannoso per
l’inabitudine a trarre ossigeno dall’aria e la pelle
sferzata dalla brezza marina che la seccava all’istante.
Quelle correnti, all’interno
dell’acqua, ognuna con la propria velocità, creavano autentiche
strade che quelle popolazioni percorrevano instancabilmente da migliaia
di anni in una città frenetica
fatta di pura acqua. Quelle
correnti, ognuna con le proprie caratteristiche di
colore e salinità, temperatura e trasparenza, creavano ambienti ai loro occhi
diversissimi.
Condomini, ricchi palazzi, viottoli, parchi e zone ricreative dove
un occhio terrestre avrebbe visto solo e nient’altro che acqua...»
Era
incredibile come Laura ricordasse tutto di quel loro primo incontro ed era
straordinario
pensare che quelle loro parole si fossero stampate dentro di lei con la forza
di ciò che non si può dimenticare. Cecilia si sentì più protetta: quella penna,
furiosamente
lanciata a depredarla della sua creatura, dimostrava di essere più sensibile di quanto
aveva immaginato
sulle prime.
Ma era solo dagli ultimi
decenni che le cose erano cambiate quando
qualcosa di totalmente
inconsueto aveva iniziato a comparire proprio al centro del vortice. Era quello il luogo
che loro consideravano più sacro, dove le correnti sembravano girarsi attorno,
creando
colonne tortili preziose ed incantevoli, dove di notte lo scintillio
del plancton, fluttuante in ampi
giri verticali,
ricordava lo sfarzo luminoso di un sontuoso palazzo. Il luogo ideale per la
dimora dei
loro sovrani.
Cecilia,
rapita da quella descrizione, si trovava ora più al centro dell’Oceano che
nella camera
di Laura. Nemmeno Laura c’era più, non c’era la sua voce come pure la
diffidenza verso colei che s’era impossessata dei loro scambi fantastici.
C’erano le colonne tortili, lo scintillio del plancton e la dimora dei sovrani.
Ogni ansia era svanita, fugata
dall’immedesimazione in quegli abitanti del mare che
soli potevano percepire gli infiniti aspetti di
quel meraviglioso mondo d’acqua. Per poterlo vivere
appieno non
bastava calarsi con l’immaginazione sotto la superficie del mare ma bisognava
diventare uno di loro, trasformarsi
in sirena e strappare alla
realtà preziosi istanti in cui vivere qualcosa di totalmente diverso e bellissimo.
E attraverso quelle parole lei lo stava facendo.
Al di sopra delle loro teste,
la superficie
dell’acqua al centro del vortice
non era mai stata pulita. Lì le correnti
ammucchiavano da sempre grandi quantità di relitti
naturali. Tronchi d’albero, rami e noci di cocco non avevano mai smesso di
volteggiare
sopra le loro teste. Ma ciò avveniva dove a nessuno importava
niente perchè
qualsiasi cosa galleggiasse sopra di loro poco aveva a che fare con quel mondo
sommerso. Per migliaia di anni era stato così, finchè il materiale galleggiante
non cominciò ad aumentare a dismisura ed invece di
restare sulla superficie aveva iniziato ad
occupare un sempre crescente spessore di Oceano. Non fu più necessario
uscire
dall’acqua per imbattersi in quel deposito fluttuante e col
tempo non divenne più possibile ignorarlo.
All’inizio, quando gli stessi
sovrani videro comparire nella loro reggia
cristallina elementi
mai visti quali bottiglie, flaconi, borse e sacchetti trovarono la visita di
quegli insoliti ospiti un diversivo originale. Qualcuno della corte ebbe
perfino il coraggio di avvicinarsi, di toccarli,
di portarli in dono al Re e alla
Regina. Poi
seguirono i regali
alle loro famiglie, ai loro amici,
agli amici degli amici.
Fu così che quegli oggetti misteriosi arrivati chissà da dove, da rifiuti qual
erano in realtà, conobbero una seconda stagione trasformandosi in merce preziosa.
Presto gli oggetti fluttuanti aumentarono ed andarono a
riguardare una porzione sempre più ampia attorno alla reggia. Quel ben di Dio
iniziava a rendersi disponibile a tutti, tanto che ognuno capì presto
come,
invece di calarsi nell’abisso e raccogliere dal
fondale marino materiale per la costruzione dei loro ornamenti, potesse
essere
molto più facile
allungare
una mano su qualche curioso oggetto. Fu così che di colpo la moda
cambiò e
al posto degli antiquati conchiglioni di madreperla iniziarono a
comparire vaschette di polistirolo quali futuristici reggiseni. Non
passò molto tempo che molti dimenticarono completamente le
lunghe, fredde e faticose nuotate sul fondo. Molto più pratico e soddisfacente
era raccogliere sacchetti di plastica
colorata ed
intrecciarne brandelli per rendere molto più originali le proprie acconciature,
soppiantando alghe e coralli che ormai avevano fatto il loro tempo.
In breve però la misteriosa
massa iniziò a
fagocitare
il centro di quel loro universo e
chi ne fece le spese
per primi furono proprio i regnanti che, sottovalutando il problema, avevano
lasciato con leggerezza che quelle nuove presenze diventassero parte del loro
mondo.
Avvincente.
Ma
perchè Laura non si fermava un attimo, perchè non alzava mai gli occhi per chiederle
un parere? La stanza ricomparve, ricomparve Laura e con essa la paura di lei
che si stava prendendo tutto ciò che era anche suo. Quanto poteva essere
andata avanti ancora nel tempo di una sola ora di geometria?
Col tempo i sovrani videro
la loro reggia inghiottita da decine di metri di plastiche ammassate dove introdursi risultava difficile e
pericoloso. Muoversi all’interno costava fatica, i
movimenti diventavano lenti ed impacciati e, non capendo più
dove ci si trovasse, era facile perdersi e girare a lungo
prima di trovare come uscirne.
Ma c’era un altro pericolo
che per poco non costò la vita proprio al principino, un tritonetto
pieno d’argento vivo addosso che,
per gioco, si era messo a nuotare più velocemente
possibile in mezzo a quell’ammasso che si era
stabilizzato al centro della dimora
regale.
Disgraziatamente la pressione
dell’acqua aveva improvvisamente appiccicato, contemporaneamente
su naso e bocca del piccolo, un sacchetto della spesa, impedendo
che l’acqua scorresse nelle sue branchie e quindi di respirare. Ciò non sarebbe
stato nulla di particolarmente grave se, nel frattempo, una
mano non gli si fosse impigliata in una retina di limoni che a sua volta stava
attaccata ad un bidone della spazzatura. Nel tentativo di liberarsi, il
bidone gli finì in testa, impedendo anche all’altra mano di raggiungere la
faccia. Per fortuna intervenne sua
madre Yavalha,
la regina, che prontamente riuscì a liberarlo prima che accadesse il peggio.
Da quel giorno i sovrani di
quell’antico Popolo del Mare
decisero di spostare la propria
reggia in un luogo più sicuro restando sempre ai margini di quella che avevano
da allora,
ufficialmente, chiamato ‘La Macchia’. Questa,
nell’ultimo decennio,
aveva preso ad allargarsi talmente da rendere necessario spostamenti
impercettibili ma
quotidiani
di tutta la popolazione, reggia compresa. Col tempo nessuno ci
fece più caso, imparando a tenere come punto di riferimento proprio i margini
della Macchia.
Intanto il re era morto e la
regina Yavalha si dimostrava sempre più
preoccupata
per le sorti del suo popolo. Aveva spinto i maggiori studiosi ad occuparsi del
problema
e questi si erano alambiccati invano per capire quale potesse essere l’origine
della
Macchia.
Yavalha aveva cercato in ogni
modo di contrastare quella
stupida tendenza a vedere
quel fenomeno come qualcosa di buono. Era convinta, come molti anziani consiglieri
che ricordavano bene la bellezza del loro mare pulito, che la Macchia non
potesse portare
al suo popolo che danni e sciagure. Per prima
cosa stava cambiando la sua gente e non la stava cambiando in meglio: tutti
quegli strani oggetti di forma, dimensione e colori differenti erano diventati un’attrattiva irresistibile per i
giovani e una tentazione irrinunciabile per i pigroni d’ogni età sempre in
maggior numero che potevano così evitare lunghe nuotate sul
fondo.
Era
incredibile come quel fiume di parole stesse andando con precisione
millimetrica proprio nella direzione che lei stessa auspicava. Sorprendente
come riuscisse
ad interpretare con lo spirito giusto quella situazione paradossale in cui i rifiuti
venivano scambiati per progresso. Poteva essere resa meglio quell’idea comparsa
per caso quel giorno in aula di informatica?
Sembrava
che Laura avesse letto nel suo animo domande, perplessità e paure, a proposito
dei grandi interrogativi sulle sorti della Terra. Quelle che non riusciva a
condividere con nessuno della sua classe e che erano state spesso scambiate per
superbia intellettuale.
L’altra ipotesi
è che fosse interessata quanto lei al
destino
del Pianeta.
Veri e propri convegni aperti
a tutta la popolazione si tennero invitando i migliori studiosi
a discutere sul problema: la gente doveva essere informata delle conseguenze di
quelle
nuove abitudini.
Il primo di questi convegni non
avrebbe dovuto spaventare nessuno. «Macchia e
peso in eccesso»:
la regina si aspettava un pienone che non ci fu proprio per niente.
«Macchia e morte» fu il
secondo. Ma anche il titolone, che doveva servire a scatenare un
qualche allarme, servì a ben poco. Avevano partecipato i
soliti quattro gatti, i più avevano fatto
spallucce, tacciando la regina di catastrofismo.
Difatti, anche se la salute di
tritoni e sirene si era fatta più cagionevole negli ultimi tempi, il dubbio che
potesse trattarsi di un qualche effetto misterioso della Macchia non sfiorò
molte coscienze.
Solo i delfini, da sempre attenti ai problemi del mare, avevano partecipato
in massa. Essi comprendevano infatti senza problemi la lingua di
quelle genti. La lingua dei delfini, d’altra
parte, era comunemente parlata
tra sirene e tritoni, in quanto anche quella del Popolo del Mare
era basata su fischi ed ultrasuoni che potevano viaggiare nell’acqua per lunghe
distanze.
I delfini, a guardarsi intorno, nel vedere così pochi partecipanti tra Sirene e
Tritoni, avevano fischiato commenti assai duri per quel comportamento vergognosamente
irresponsabile nei
confronti delle
creature del mare. Tutti dovevano sapere delle
misteriose morie di meduse che si erano verificate con sempre maggiore frequenza da quando
la Macchia si era ingigantita.
Soprattutto, secondo loro, non si potevano ignorare le morti inspiegabili di
alcuni delfini. In riferimento a quei luttuosi casi, era
intervenuta la vedova di una delle vittime che
aveva giurato davanti a tutti che il povero delfino marito era
perfettamente sano quando l’aveva visto per l’’ultima volta e che
l’avevano trovato morto soffocato, dopo che si era
recato a controllare l’avanzata della Macchia. Che un delfino morisse in quel
modo era un fatto del tutto insolito che doveva far riflettere.
Che dire poi della tartaruga marina che s’era salvata appena in tempo vomitando
uno di quei sacchetti? E dei barracuda, cernie e merluzzi sempre più malaticci?
«Macchia e Codaspaccata» fu uno
degli ultimi convegni proposti dalla regina
Yavalha. In quell’occasione si era cercato di capire se ci fosse un
collegamento tra l’avanzare della Macchia e quelli che chiamavano
Codaspaccata, esseri informi
che con Sirene e Tritoni avevano una
grottesca somiglianza. Talvolta capitavano sopra le
loro teste, sospesi su isolotti
galleggianti, ma per fortuna pareva che con loro non dovessero mai avere nulla
a
che fare.
Anche in quell’occasione
erano stati invitati tre tritoni testimoni. Questi avevano riferito
che i
Codaspaccata
se ne stavano
per conto loro su curiosi isolotti di forma allungata che facevano puzza e un
gran fracasso ma avevano anche il pregio di andarsene
via veloci come erano arrivati. Solo l’ultimo testimone aveva aggiunto un
particolare che, sulle prime, non era stato preso nella
dovuta considerazione. Si trattava di un oggetto cilindrico, lungo
e trasparente che, dopo essere stato accostato alla bocca
di uno di quegli esseri, era finito in acqua, lanciato
lontano proprio dalle sue
stesse mani.
La cosa sollevò in seguito aspri
dibattiti: di oggetti simili ce n’erano in abbondanza
nella Macchia. Si trattava di un caso o in qualche modo quelle presenze aliene
avevano
una loro responsabilità
in quel
fenomeno inarrestabile?
La regina Yavalha era
fermamente convinta che l’origine
della Macchia fosse legata proprio a quelle creature dall’aspetto repulsivo. In
che modo esattamente e
come facessero a procurarsi quegli oggetti indistruttibili, se lo facessero per
distruggere il
loro popolo o per qual altro motivo fu il tema dell’ultimo
convegno: «OCT
(oggetti
cilindrici trasparenti) da dove e perchè».
Ma anche stavolta
l’iniziativa venne disertata. Ognuno era convinto che la regina avesse
le ‘fisse’ e si mormorava addirittura che i testimoni nei convegni fossero poco
attendibili.
Nessuno, si disse, aveva visto
per davvero quegli oggetti cilindrici in mano ai Codaspaccata e la vedova del delfino
stava solo accondiscendendo la sovrana con quei suoi sospetti
sulla Macchia. E a questo c’era un perchè: la Macchia doveva essere a
tutti i costi
qualcosa di brutto e sporco per la paura che la regina s’era presa quando suo
figlio era piccolo. Una volta
cresciuto non
l’ascoltò più nemmeno
lui,
facendo esattamente come tutti gli altri giovani,
sfruttando
la Macchia per quello che di diverso dalla solita noiosa acqua poteva
offrire.
I giovani infatti avevano inventato persino un nuovo passatempo: l’andare a caccia di oggetti
rari ai margini di quell’ammasso curioso. Fiori di Plastica ad
esempio, perchè sfoggiarli attorno al collo o alle
braccia era
pazzamente trendy e segno di gran virilità. Non
è che facilitassero molto il nuoto, ma pazienza.
Le ragazze invece cercavano zebre,
leoncini,
paperette, pupazzetti di plastica di ogni tipo che legavano assieme per fare
lunghe collane coloratissime. Nessuno sapeva quegli
oggetti cosa rappresentassero, da dove venissero, che funzione avessero,
sapevano solo che erano belli e colorati e che le facevano sentire
molto seducenti. Assieme alle plastiche sui capelli e al polistirolo come
reggiseno, naturalmente.
Una volta un tritone aveva
trovato, tra
cavallini e paperette, una
sirenetta di quello stesso materiale. L’aveva lasciata là
per paura di un altro convegno.
A
Cecilia scappò da ridere ma si trattenne perchè
Laura aveva alzato finalmente gli occhi. Doveva
avere la gola secca, pensò.
«Hai...hai
scritto tutto nell’ora di geometria?» fu la prima cosa che riuscì
a dire.
«No,
veramente, anche nell’ora di fisica e metà di quella di storia»
«Ah, meno
male»
rispose semplicemente. Stava per dire molto e molto altro e,
siccome avrebbe sicuramente esagerato, restò a guardarla.
«Ho scritto
tutto?»
la precedette Laura, colta di sorpresa da quell’indifferenza.
‘Sì,
sì. Hai scritto tutto. Tutto tu, infatti, e a me cosa resta?’ Avrebbe risposto.
Invece riuscì ad essere meno caustica: «Brava, non
ti sei dimenticata proprio niente, diciamo che...come appunti...ci hai messo un po’del
tuo, no?»
Laura
sorrise. Cecilia non riusciva a capire se cercava approvazione o perdono.
Vero era che l’approvazione per quegli appunti che
avevano tutta l’aria di un romanzo
vero, e di quelli belli, che ti catturano e ti appassionano, c’era tutta. Il
perdono? Bella domanda.
«Allora, se questo
va
bene, andiamo avanti con la storia no? Magari ci troviamo anche domani»
Ma
come si poteva resistere ad un entusiasmo del genere? Perchè volerlo spegnere? Essere così
possessiva nei riguardi di quella creatura a cui stavano dando vita entrambe non
era giusto. Stava a lei imporre la sua parte di DNA e avrebbe
cominciato proprio da quel Codabrutta che proprio non riusciva a digerire.
«Allora...innanzitutto
Codabrutta non era il suo vero nome, immagino» fece Cecilia,
sancendo lì per lì
l’ora del battesimo. Adesso o mai più, pensò. «Il suo
nome era Scilli, era così che l’avevano chiamata i suoi genitori»
«E dov’erano
adesso questi genitori? Morti. Ho capito, erano morti»
«No no» disse
Cecilia sorridendo, come qualcuno che sa e non vuole parlare.
«Ok, erano
vivi ma erano spariti»
«Esatto»
«Ed erano
una sirena e un umano»
«Sì sì»
«Sì sì, no
no. Se sai qualcosa di più dimmelo e non fare la misteriosa!»
Chissà
come le era finito il coltello dalla parte del manico, forse in segno di
riconciliazione,
pensò Cecilia. Ma disgraziatamente non aveva le idee chiare, proprio
per nulla.
«Poi c’è da
capire come mai era lì, forse era abbandonata» aggiunse
Laura, assumendo un
atteggiamento di preoccupante concentrazione. A Cecilia iniziò a battere forte
il cuore, avrebbe dovuto batterla sul tempo ma, in preda all’ansia, sapeva di
non essere in grado di
combinare nulla di buono. Non era il caso di continuare, si sentiva troppo
stressata da quel turbinare di eventi. Ma aveva tutta la sera di domenica per
mettersi al computer. Quella storia dei
genitori doveva essere assolutamente sua e avrebbe
dovuto essere pronta per lunedì mattina. Sorprendente quanto e più di
quella di Laura.
Patti
chiari, amicizia lunga. E siccome
quell’amicizia doveva davvero essere lunga, bella e felice, i patti dovevano
essere limpidi come
acqua di sorgente.
«Sai una
cosa? La verità è che sono frastornata. È
successo di tutto e poi ...non capita tutti i giorni di ritrovarsi un’amica
scrittrice!»
Cecilia vide il volto di Laura illuminarsi
di contentezza alle sue parole e continuò: «Ma siccome
della faccenda dei genitori vorrei occuparmi
io, ho pensato che i miei appunti te li
faccio leggere dopodomani a
scuola. Appunti stile i
tuoi, s’intende. Vediamo se pensando di scrivere appunti anche a me saltano
fuori pagine belle
come le tue»
Nonostante
il nuovo carico di complimenti, stavolta Laura non
sembrò
fare i salti dalla gioia.
«E io che
cosa faccio?»
chiese con aria supplichevole.
«Copi al
computer quello che hai scritto in classe, ad esempio»
«Hai
ragione! Così lunedì mostriamo tutto alla prof...e
poi...meglio mettere le cose in salvo, magari in classe Matilde li vede e ce li
usa come carta igienica!»
Cecilia
e Laura si sciolsero in una grande risata che protrassero a lungo, in modo del
tutto
sproporzionato, fino alle lacrime.
Avevano
bisogno di farla quell’interminabile risata per seppellire in quel modo quella
storiaccia di Matilde. Ridere e ridere, per capire quanto meravigliosa potesse
essere la loro amicizia dopo quell’interminabile lettura che per certi versi le
aveva legate e per altri
divise.
Ridere
semplicemente perchè era bello ridere. Come si fa tra due amiche che assieme
stanno bene sul serio.
Capitolo 6
LE ORIGINI
Nessuno aveva mai visto
Yavalha con uno sguardo più cupo.
Eppure ne erano accadute di
cose sotto gli
occhi di quell’anziana
sovrana. Durante il
suo regno si era manifestato l’evento più incredibile e
preoccupante che mai avesse scosso l’equilibrio millenario di quell’antico
popolo. L’immensa Macchia si era allargata fin dentro al suo
animo, le aveva distrutto la pace, generato un tarlo che la divorava ed il
peso della
responsabilità
verso quel suo cieco popolo la stava facendo impazzire.
Eppure, quella sirena affranta che le stava davanti aveva il
coraggio di chiederle tanto. Con
quello che stava accadendo, con quello che era già accaduto.
Anche Yavalha aveva dei
figli, sapeva cosa significasse
essere madre, essere nonna ma non avrebbe mai potuto dimenticare quando il
primo dei suoi figli, trent’anni prima,
stava perdendo la vita proprio a causa di quella sciagura galleggiante
che, cominciando dalla sua reggia, aveva devastato tutto il suo mondo.
Eppure, quell’anziana sirena aveva la faccia tosta
di parlarle a quel modo. E proprio
perchè era madre e proprio perchè era nonna osava farlo,
contando sulla sua misericordia
nei confronti dei fanciulli.
Intorno alla regina i dodici
sommi consiglieri: ondeggiavano
nervosamente la coda, ognuno di loro impegnato a scoprire sul volto di Yavalha
un’anticipazione di risposta
a quella richiesta impossibile.
No e poi no: ognuno di loro
avrebbe già dato la sua secca risposta. Al diavolo i fanciulli,
al diavolo la pietà, qui si trattava del futuro del loro popolo e Yavalha
avrebbe dovuto
saperlo.
Perchè ancora taceva?
«Lo so che vi sto chiedendo
molto mia
Regina, mi conoscete bene e sapete che
non l’avrei mai fatto se non sentissi il mio cuore spezzarsi per
questa creatura innocente che mi è stata affidata»
«E’ un mostro
la tua creatura innocente, Attien»
Uno dei consiglieri, un
vecchio tritone dalla lunga barba verde e sopracciglia folte e arcigne, era
intervenuto e a quelle parole si levò un mormorio
di disgusto
per quella frase spietata. La
Regina mosse la testa stizzita in
direzione del Tritone, condannando
quel tono.
La donna accarezzava teneramente il ciuffo verdeazzurro della
piccina che aveva in braccio. Il resto della sua chioma era di un
colore insolito, giallo
luminoso, e
scendeva oltre il
braccio della nonna che ne sorreggeva la testa con infinita pietà.
«E’ tanto
brutto quello che hai detto, Svael» commentò mortificata la
vecchia sirena« per
fortuna non può averti sentito perchè dorme. Dorme da venti
ore,
ormai»
«Svael allontanati, questo è
un caso da trattare con la punta delle dita e non con artigli
affilati come i tuoi»
Yavalha era sempre stata una sovrana magnanima e non
voleva avvelenare
ulteriormente il calice amaro che avrebbe dovuto porgere
a quella donna di lì a poco.
«Da quando è successo
l’incidente, da quando l’ho tirata fuori dalla Macchia e l’ho liberata da
ogni genere di schifezze che le si erano
avvolte
al corpo, non si è più risvegliata. E’ così che i piccoli
si
difendono: quando
succede qualcosa che non riescono a
sopportare,
si addormentano. Lo farei anch’io se potessi».
Cecilia
aveva pensato alla sua sorellina di cinque anni che dormiva nell’altra camera.
Quando veniva sgridata per bene dalla mamma, dopo aver pianto a dirotto faceva
proprio così, s’addormentava e in quel modo risolveva tutti i suoi problemi.
Ogni tanto l’aveva invidiata.
Sentiva
le sue parole scorrere a fiumi. Non aveva bisogno di rincorere un’idea perchè
questa
arrivava già bell’e pronta. Anzi, sembrava quasi venirla a
cercare.
Era come vivere in un altro mondo, un sogno ad occhi aperti
quando gli occhi avrebbe già dovuto chiuderli da un pezzo, accoccolata sotto le
coperte.
«Sognare, sì: se potessi
vorrei sognare i suoi genitori che arrivano, mia figlia, la mia
bella Edriel
che viene a prendersela ed invece, quando si
sveglierà,
io dovrò dirglielo...» Attien aveva la voce rotta
dal pianto.
La piccola ebbe un sussulto
ed una gambina scivolò dal grembo dell’anziana sirena.
Un mormorio impercettibile si diffuse
tra i consiglieri mentre il tritone allontanato le allungò
un’occhiata di disgusto nell’andarsene.
La nonna
si affrettò a sollevare il piedino squamoso della nipotina e accostò assieme
le due gambette. Guardava quelle insolite gracili pinne, tozzamente
frastagliate in cinque piccole appendici simili a mani. Unite dalle sue mani potevano
vagamente assomigliare
ad una coda.
C’era pietà ora negli sguardi
di molti consiglieri.
«Potremo legargliele assieme.
Darà meno nell’occhio» propose una delle Sirene.
«Credo purtroppo che questo
sia il problema minore» commentò Yavalha con un sospiro di
rassegnazione. Attien sentì il cuore che le balzava nel petto.
«Cosa intendete Regina?
Guardatela, avrà su per giù cinque anni e non si è ancora ripresa da
ciò che lè è
accaduto. Il
suo faccino è dolce,
io credo sia una sirenetta in
gamba, forte e coraggiosa»
«Non è una sirenetta, Attien»
L’anziana sirena non volle far caso a
quelle parole così amare e continuò:
«Due giorni a
vagare dentro la Macchia, sola, con le braccia
intrappolate chissà da quanto. Poteva
morire in qualsiasi momento...»
La Regina trasalì a quella
descrizione, l’avventura di suo figlio era un trauma
che non sarebbe mai riuscita a cancellare. Anche per questo odiava così la
Macchia. Anche
per questo quella sirenetta informe non poteva diventare davvero
una di loro. Il Popolo
del Mare e
quello dei Codaspaccata
dovevano restare separati. La loro Macchia li aveva già danneggiati
abbastanza,
allontanandoli sempre più dal centro del loro universo. Chissà di quel passo
dove sarebbero
finiti.
«Accoglietela mia Regina, vi
supplico»
Se quella sirenetta fosse
restata in mezzo a loro avrebbe potuto generare altri mostri che avrebbero
cercato le loro origini lontano, riconducendosi a quel mondo malfatto di
creature malfatte,
ripugnanti come la loro Macchia.
«Magari vi potrete abituare,
iniziare ad amarla...»
«Basterà non abbassare mai gli
occhi dalla cintola in giù» aggiunse
sottovoce una delle Sirene Consigliere alla compagna di destra.
Questa le rispose con un’occhiataccia. Alla sua sinistra
invece qualcuno rise, ma sottovoce.
«Calatevi nei miei panni: sono stata
messa
dinanzi al fatto compiuto! Cosa potevo fare? Una
figlia che parte all’età di soli diciassette anni, mi pianta in asso perchè
dice di voler
sciogliere a
tutti i costi il mistero della Macchia. Ve la ricordate tutti
Edriel? Vero, vero
che ve la ricordate?»
Nessuno ebbe più il coraggio
di commentare, anche il più piccolo mormorio sarebbe
stato fuori luogo.
«Amore,
cosa fai davanti al computer a quest’ora? Manca un quarto all’una! Potevi sbrigarti
prima con le ricerche, no?»
«Non è una
ricerca mamma. Anzi no, forse è una
ricerca anche questa e
una ricerca importante»
«Beh, se è
così, sai tu se
valeva la pena di fare così tardi. Mi faresti vedere?»
«Non adesso,
mamma»
«Hai
ragione, vai
a letto,
è tardi. Coraggio tesoro, che domani mattina non capisci più niente dal
sonno»
Cecilia
guardò l’ora inverosimile che si era fatta in quel tempo senza tempo in cui aveva
vissuto davanti al computer. Era tardissimo, era da incoscienti restare alzati.
Domani a scuola avrebbe dormito sul banco, non poteva permetterselo, c’erano le
interrogazioni,
le verifiche...A nanna, a nanna e senza perdere un istante.
Impossibile.
Prendere sonno era impossibile.
«Edriel voleva scoprire, voleva
capire, era una delle poche ragazze che non apprezzava la
Macchia con le sue lusinganti attrattive. Voi ve la ricordate vero
Yavalha? La pensava
esattamente come voi, benchè così giovane, perchè
sapeva vedere con occhi
diversi. Questa piccola ha i suoi
stessi occhi, io glieli ho visti, anche se per pochi minuti, prima
che, sfinita, li chiudesse tra le mie braccia. Hanno di mia
figlia la stessa luce profonda...» L’anziana sirena stava
lottando con se
stessa per poter continuare a
parlare ma invano
perchè ormai le parole si erano
sciolte in lacrime.
«Non credere che non ricordi,
che non capisca. Quando mi hai confidato che tua figlia aveva quest’intenzione,
ti dissi di impedirglielo perchè era troppo giovane. Lo so
di essere colpevole perchè in cuor mio benedicevo quel
coraggio. Anche io volevo sapere. Quel giorno che
partì davvero seguendo alcuni Codaspaccata sui loro isolotti, non avrei mai
potuto credere che non
tornasse»
«Era la sua ossessione: chi sono,
da dove vengono? é da lì che
viene anche la
Macchia?
E’giusto
temerli, aborrirli, detestarli? E la Macchia per loro è un
bene o un male? E
per il nostro
popolo cos’è?»
Yavalha annuiva grave.
«L’ossessione
che tormenta anche voi, mia Regina. Mia figlia scomparve per quel mistero.
Dovreste ricordarvelo
bene tutti quanti, prima di prendere qualsiasi decisione su
questa creaturina»
«Ma non l’hai persa tua
figlia, l’hai rivista, non era morta» aggiunse
uno dei tritoni consiglieri.
«Certo che era viva. Mi è
corsa incontro per abbracciarmi dopo sei lunghi anni.
Ed
era felice! Dietro di lei, un po’ distante, c’era la piccola che tengo tra le
braccia tenuta
per mano da una strana creatura tutta nera. Sembrava che i due aspettassero un suo
cenno per venire da me»
«Era un Codaspaccata, vero?» chiese la
Regina.
«Credo di sì ma respirava
sott’acqua, mi risulta che i Codaspaccata non siano in grado di
farlo. E poi era più orribile degli altri: era tutto nero fino alla testa ed
anche le lunghe pinne
erano nere, una per coda, era impressionante.
La sua sagoma si stagliava in controluce contro l’azzurro rischiarato dalla
luce del sole. Non riuscivo quasi a guardarlo per quella luce. Ho potuto
vederlo bene quando mi fu abbastanza vicino: il volto era raccapriciante. Quello
che aveva di peggio erano gli occhi: grandi! Occhi
grandi come quasi tutto il viso, dalla bocca un tentacolo, nero
anch’esso,
che finiva attorcigliato dietro alle spalle. Aspettavano assieme, la piccola
gli sorrideva, non lo vdeva spaventoso, non so come facesse, credo che
volessero proprio venire da me. Poi
sono arrivati loro....»Attien scoppiò in un pianto
sommesso che scuoteva tutto il corpo della piccola abbandonata tra le sue braccia.
«Pericoloso o meno che fosse, i tuoi
squali se lo sono mangiato, Regina! Hanno fatto come avete deciso qui
dentro,
tutti voi!»
Yavalha sentiva che quelle
lacrime affondavano come pugnali nel suo cuore: ciò che le avrebbe detto di lì
a poco era di una crudeltà inammissibile. Inammissibile, se non fosse stata necessaria.
«C’era tanto sangue, non si
vedeva più niente...Quando
siamo accorse io e mia figlia, la piccina era scomparsa. Fummo terrorizzate
che i tuoi squali avessero
mangiato
anche lei!
I tuoi squali, Yavalha!»
«Non puoi farmene una colpa,
capisco il tuo dolore ma gli squali sono una precauzione
necessaria. Li
abbiamo addestrati a lungo perchè sapessero riconoscere il
Popolo del Mare dai Codaspaccata. Non mi fido di loro, lo
sai, e voglio essere sicura che non danneggino il mio mondo più di quanto hanno
già fatto»
«E’un’ipotesi, non è certo, e
per un’ipotesi credete
sia giusto uccidere! E se i Codaspaccata non c’entrassero niente con
la Macchia? Dovremmo ucciderli solo perchè li troviamo
ripugnanti?»
replicò
Attien.
I consiglieri si guardarono
interrogativi, qualcuno abbassò lo sguardo.
«Proprio questo voleva capire anche tua
figlia Edriel quando è partita sei anni fa:
se c’era o non c’era una ragione per aborrirli» ribadì la regina.
«Sì, è incredibile che sia
tornata assieme ad un Codaspaccata. E la sua
bambina ha la
coda spaccata esattamente come quell’alieno!
E’assurdo, lo so, ma avevano tutta l’aria di essere una
piccola famigliola felice»
Un mormorio di disappunto si
levò unanime da quell’assemblea.
«E’ successo
tutto così rapidamente. Edriel è subito corsa a soccorrere il
Codaspaccata
avvolto in una nuvola di sangue e portandolo in
superficie mi ha supplicato di
cercare la sua figlioletta e di occuparmene fino al
momento in cui non fosse tornata. Ero
disperata, credevo di averle perse per sempre entrambe, poi il mio sguardo
afferrò una piccola sagoma lontana che nuotava
veloce verso la
Macchia. In un istante vi scomparve in mezzo. Per due
lunghi giorni l’ho cercata in quel posto infernale. Ora sono qui e vi supplico:
aiutatemi! Non
potete chiedermi di abbandonarla chissà dove»
«Non lo faremo infatti»
Alle parole
della Regina, Attien ebbe un fremito di gioia ed
incoraggiata continuò: «Quando si
sveglierà non dovrà aver paura di guardarsi intorno circondata da
volti ostili ed espressioni disgustate. Dovrà essere trattata come
una di noi»
«E così correre il rischio di
generare altri ibridi dalle forme e dalle caratteristiche impensabili?
Ibridi che sentiranno il richiamo delle proprie origini e vorranno
ricongiungersi ai Codaspaccata. Io non lo voglio.
Non puoi chiedermi di aiutarti in questo»
«Non capisco...non...non potrà
andare a scuola, avere degli amici?» biascicò Attien impallidita.
«Potrà andare a scuola, ma non
so se potrà mai avere degli amici.»
«Ma è ingiusto, è crudele! Regina,
voi che siete misericordiosa,
voi non farete nulla per aiutarla?»
«Io non voglio che
sia considerata una di noi, lo capisci o no?»
«Volete dirmi che vivrà da
infelice fino a quando sua madre non tornerà a prendersela?»
«No»
Attien ricominciò a sperare: «Nel...nel senso che
farete qualcosa per non farla sentire diversa?»
Yavalha scosse
il capo.
«Nel senso che forse Edriel non
riuscirà a tornare?» domandò Attien consumata
in quell’andirivieni di illusioni e delusioni.
«Nel senso che non tornerà»
«Non potete dire questo Regina, non
potete essere sicura
che sia morta. Io invece lo spero, anzi dentro di me ne sono
certa: Edriel è viva e farà di tutto per riabbracciare la sua piccina»
«Lo spero che sia ancora viva»
«E allora? Non tenetemi sulle
spine, quale forza terrebbe una madre lontana dalla sua creatura?»
Yavalha non aveva intenzione
di torturare quell’infelice più del dovuto ma ciò che stava
per dirle le costava uno sforzo immenso.
«Quale
forza mi chiedi, Attien?» le disse guardandola negli
occhi con pietà infinita «La mia»
«Che...che volete dire?»
«Che sua madre non potrà venire a
riprendersela perchè gli squali verranno allenati a riconoscerla
e allontanarla. In tutti i modi.»
La vecchia sirena singhiozzava e le
sue parole uscirono come un lamento sommesso:« Non potrà
raggiungerci... mai più?»
«No, Attien, mi dispiace. Sta
a
dire che nessuna famigliola felice
dovrà mai più venire
in visita alla nonna.
Sta a dire che è meglio che la piccola dimentichi il suo passato alla svelta,
l’aiuterà senz’altro la brutta storia che ha appena trascorso ed
anche tu l’aiuterai. I piccoli dimenticano
in fretta»
Quelle parole inchiodarono
Attien fino a privarla di ogni forza.
Il corpicino non sorretto
della piccola scivolò allora dalle sue braccia e fluttuò per un istante prima
che la nonna lo riprendesse.
Sembrava morta. Per un solo
orribile momento un
pensiero atroce sfiorò la mente di Attien: se fosse morta davvero, per
quella piccola,
sarebbe stato meglio.
Erano
le tre di notte.
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