PACIFIC VORTEX incipit


Capitolo 1
PACIFIC VORTEX

Pacific Trash Vortex è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (soprattutto plastica) situato nell'Oceano Pacifico. La sua estensione non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 15 milioni di km², pari a tre volte la superficie della penisola iberica.

Cecilia aveva gli occhi grandi come lanterne.
Sulla schermata di Wikipedia, quell’ammasso gigante di schifezze in mezzo al Pacifico stava assorbendo tutte le sue funzioni mentali. Le sembrava di sentirlo circolare all’interno della sua testa, inesorabilmente in senso orario come le correnti oceaniche che lo avevano generato, mentre si espandeva a dismisura come un gigantesco minestrone di plastica. C’era di tutto: bottiglie, contenitori, flaconi, imballaggi, borse, borsette, anche qualche paperetta per le vasche da bagno.
«Cecilia, mi fai vedere?»
Le si era avvicinata quella nuova. Le pareva si chiamasse Laura.
«Sì, certo, certo» rispose Cecilia, ancora rapita da quelle immagini, ma sufficientemente in sé per capire che quella cosa che le era appena successa aveva qualcosa di assolutamente insolito. Pur con la mente occupata da tonnellate e tonnellate di rifiuti profondi trenta metri dal pelo dell’acqua, non se l’era lasciata sfuggire l’occasione del secolo e aveva risposto come se tutto fosse stato normale.  Non lo era invece, non lo era per niente, non lo era da due lunghissimi anni, esattamente da due lunghissimi anni e due giorni. Il terzo anno di sciagura era appena iniziato, infatti, in quella favolosa III D, popolata da un’intera colonia di vampiri. Ventidue: 8 maschi e 14 femmine. Ora erano in 23 per la precisione ma l’ultima arrivata non aveva ancora individuato di che specie fosse.
Era stato bello sentirsi chiamare, dall’inizio dell’anno non era ancora mai successo. Sembrava che, dopo tutto quello che era accaduto in passato, dopo i pettegolezzi, dopo le liti e dopo le burle, Cecilia non potesse essere, per i suoi compagni, che qualcosa di simile ad un disturbo cronico con il quale rassegnarsi a convivere.
Sentirsi chiamare. Sentirsi chiamare per nome. Sentirsi chiamare per nome e da una sconosciuta. Forse quel nobile isolamento del quale, con lacrime a fiumi, aveva imparato a sentirsi fiera, poteva essere finalmente infranto e la porta della sua anima, blindata con scrupolosa attenzione, aperta ad una nuova speranza.
Nel solito posto vuoto, destinato a restare tale, era accaduto il miracolo e la sconosciuta di nome Laura si era seduta sulla sedia a fianco della sua, davanti al suo stesso computer.
«Perchè ti sei spostata?» chiese Cecilia, incuriosita dal fatto che avesse lasciato proprio Matilde per venire da lei.
«Per forza...» e si interruppe. Cecilia la guardò incuriosita.
 «Li vedi quelli a destra di Matilde?» fece Laura sottovoce «anche quelli a sinistra, veramente» e riprese ancor più sottovoce «naviga, naviga, sai dove sono finiti ‘per caso’? Prova ad indovinare!»
Cecilia si sentì decisamente a corto di idee e pensò fosse più elegante rispondere con un cauto silenzio.
Laura continuò: «Guarda, mi danno i nervi, non dovevamo cercare notizie sulla plastica? Sai quelli di che plastica si stanno occupando?» Cecilia continuava a navigare nell’ignoto. « ‘Bambolone di plastica’ ma non quelle dei negozi di giocattoli. Mi capisci?»
Non capiva. Peccato, pensò Cecilia, inaugurare un incontro così promettente con un’espressione idiota come quella che si sentiva addosso. Tutto sommato, però, non provò un grande imbarazzo: erano lontani quei dannati momenti in cui si vergognava terribilmente per qualunque cosa. Aveva capito che sentirsi deficiente ogni tanto non era poi la fine del mondo. Ora si sarebbe sentita deficiente nel vergognarsi.
«Le bambolone dei sexy-shop! Laggiù vanno a caccia di siti porno, ci sei?» ed aggiunse, sorridendo:«forse credono di essere rimasti in tema: sempre di plastica si tratta. Io, invece, preferisco navigare un po’ nel tuo mare di rifiuti. Ti dispiace?»
Uaooh. Che presentazione. Laura le aveva sottoposto nel giro di pochi istanti un curriculum da capogiro: decisa, impegnata, intelligente, ironica. Senza dubbio più informata di lei, almeno su certi temi. Forse non quelli fondamentali, ma utili, se non altro, ad evitare figuracce.
In altre parole, assunta a tempo indeterminato.
«Pacific Vortex» pronunciò Laura dinanzi all’immagine di rifiuti a perdita d’occhio galleggianti per l’Oceano Pacifico. «Pensa un po’, proprio a nord delle Hawaii, le isole più belle del mondo, c’è l’isola più brutta, un ammasso grande come mezza Europa»
Ma dove stava leggendo? Cecilia quelle cose le sapeva perchè le aveva appena viste in un’altra pagina, ma davanti a loro c’era solo un’immagine e nessuna spiegazione. Era informatissima quella ragazza e non solo sui siti porno, grazie al cielo.
Chissà se viveva i problemi ambientali come lei, come se si sentisse responsabile con le sue azioni dirette, quotidiane, come se il futuro del Pianeta dipendesse dal suo comportamento. In prima fila in una battaglia dagli accenti epocali.
Tutto quell’eroismo le era già costato in classe parecchie batoste. Meglio evitare le crociate, si era detta da un pezzo ed ora, che era cresciuta, sentiva di aver abbandonato l’ingenuità di quei giovanili ardori, coltivando i suoi principi all’ombra di una preziosa solitudine.
«Hai provato qui?» propose Laura cliccando su una nuova pagina.

Lo chiamano Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell'Oceano Pacifico, ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e per il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. "È come se fosse un'immensa isola nel mezzo dell'Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità del materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessivo di questa ‘isola’ di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate", spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco, da poco tornato da un sopralluogo.
Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all'esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione.
Storicamente i rifiuti di origine biologica erano spontaneamente sottoposti a biodegradazione, mentre in questo luogo si sta accumulando una enorme quantità di plastica e di rottami marini. Anziché biodegradare, la plastica si "fotodegrada", disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli, fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono la cui ulteriore biodegradazione è molto difficile.[3] La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da PCBs. Il galleggiamento di tali particelle che apparentemente assomigliano a zooplancton, inganna le meduse che se ne cibano, causandone l'introduzione nella catena alimentare.

«Che disastro, pensa un po’a quei poveri pesci che si trovano nella pancia microscopici pezzettini di plastica» commentò Laura.
«Le tartarughe invece si mangiano i sacchetti di plastica direttamente» aggiunse Cecilia. E continuò: «Se ci abitassero delle sirene? Ci pensi tu a come potrebbe prendere una cosa del genere un intero popolo di sirene?»
Le era scappato. Quella sua esplosiva fantasia non sapeva restarsene al suo posto. Mai.
«Come, scusa?» Laura sembrava non aver capito.
Murene. Poteva dire murene. Era facile scambiare sirene con murene. E tutto sarebbe tornato al suo posto. Non voleva che quelle sirene piombate all’improvviso rovinassero quell’inatteso miracolo e la dividessero subito da quella ragazza nella quale sperava tanto di trovare un’amica. Troppo impegnative da portarsi appresso come tutto quel suo mondo fantastico con il quale amava condividere gran parte del suo tempo. Ma di bugie non se ne parlava: accettarla doveva voler dire accogliere anche tutte le sue sirene e con le sirene tutto ciò che di fantastico popolava la sua mente.
«Non ho capito. Hai detto sirene?» ribadì la ragazza.
«Sì, pensa un po’se proprio in quella zona fossero vissute da migliaia di anni una popolazione di sirene e tritoni, magari in qualche modo legate proprio a quelle correnti...»
«...che servivano per una migliore ossigenazione dell’acqua, ideale per il loro particolare sistema respiratorio misto branchie-polmoni. Quelle correnti, ognuna con la propria velocità, creavano autentiche strade che quelle popolazioni percorrevano instancabilmente da migliaia di anni in una città frenetica fatta di pura acqua...»
«Quelle correnti, ognuna con le proprie caratteristiche di temperatura e salinità, colore e trasparenza, creavano ambienti ai loro occhi diversissimi: condomini, ricchi palazzi, viottoli, parchi e zone ricreative dove un occhio terrestre avrebbe visto solo e nient’altro che acqua...»
Laura avrebbe continuato imperterrita il suo viaggio in quelle favolose correnti popolate da un antico popolo del mare, quando vide che Cecilia la fissava. Laura sembrò spaventarsi, forse aveva l’impressione di aver corso troppo e tacque. Cecilia si era già pentita amaramente per quello sguardo sbagliato. Sbagliato e nel momento sbagliato. Non sapeva più cosa dire. Era stata proprio lei a riportare Laura alla realtà, proprio lei che non era riuscita a lasciarsi andare in quel gioco meraviglioso. Era passato diverso tempo da quando, con le amichette delle elementari, riusciva a vivere una realtà parallela fatta di lotte tra buoni e cattivi, di magie e poteri usando tutto il suo nutrito esercito di Barbie e affini. Ora l’esercito se ne stava impolverato a guardarla dalla mensoletta della sua camera ma la sua immaginazione continuava a portarla ovunque ed era tutt’altro che impolverata. A differenza del passato, però, le sue avventure le conduceva rigorosamente in solitaria. Chi mai l’avrebbe più seguita nelle sue meravigliose storie ricche di personaggi, ambienti fantastici, amori, dolori e colpi di scena? E così esse si svolgevano principalmente prima di addormentarsi, nel calduccio del suo letto, e spesso anche nel tragitto casa-scuola. Talvolta finiva persino per sbagliare strada.
Ora però era stata la realtà a vincere anche su di lei con tutto il suo carico di arida normalità. E proprio lei si era ritrovata a guardare Laura come fosse strana. Proprio lei l’aveva fatto, proprio lei che ormai era convinta di essere strana per vocazione.
Laura si alzò senza dire una parola, approfittando del suono della campanella che indicava il cambio dell’ora e scivolò in silenzio in mezzo al gruppo di tutti gli altri ragazzi che, un po’chiacchierando e un po’spintonandosi, usciva dall’aula di informatica.
Gli unici ad indugiare furono Matilde e compagni, impegnati a contenere un’ilarità gonfia di soddisfazione per quell’avventura così ben riuscita a dispetto di regole e professori. E in barba anche a quella gente strana, come quella nuova, Laura, o quella solita, Cecilia, della quale non valeva nemmeno più la pena di parlare.







Capitolo 2
QUATTRO PENNE PER L’AMBIENTE

A scuola, Cecilia passò i giorni seguenti alla solita maniera. Si era assuefatta da tempo alla propria invisibilità ma non altrettanto riusciva a digerire l’atteggiamento di Laura.  La netta impressione era che la stesse deliberatamente evitando. Non si sarebbe potuto dire diversamente infatti di una persona che abbassa gli occhi quando passi o si gira dall’altra parte se per caso si sente osservata. Anche riuscire a non trovarsela mai in bagno a ricreazione era un dettaglio da non sottovalutare, come pure non finire una sola volta per incrociarla quando si trattava di prendere il materiale dagli scaffali. Che tristezza.
 «E adesso, ragazzi, ascoltatemi perchè ho una proposta interessantissima da farvi» Fu così che esordì coraggiosamente, dopo appena una settimana dal suo arrivo, la giovane professoressa Nivato, che avrebbe supplito quella d’italiano per un bel po’di tempo, visto che la poveretta, durante le vacanze, si era rotta femore e clavicola cadendo da una scala. a
Cecilia guardò quella giovane insegnante con una certa compassione. Di bell’aspetto, con abbigliamento da ragazzina, perchè ragazzina lo era per davvero, aveva pochissime probabilità di uscire viva dalla lunga permanenza che le si prospettava in quella classe. La proposta interessantissima, per interessantissima che potesse essere, sapeva bene come sarebbe andata a finire in quella bella classetta.
«Quattro penne per l’ambiente» un concorso a premi per ragazzi come voi»
Ci fu un attimo di attenzione che l’insegnante badò bene a non farsi scappare.
«Sapete perchè si chiama così? Provate ad immaginarlo»
Fu subito travolta da uno stuolo di braccia alzate e di risposte caotiche che andavano a parare in diverse direzioni, le più disparate. Venne fuori che penne stava per uccelli e che bisognava salvaguardare quattro tipi d’uccelli o che le penne erano quelle per scrivere e che ognuno avrebbe dovuto realizzare un bel tema con penne di quattro colori. Quell’esercizio di fantasia era riuscito per davvero a catturare l’attenzione dei ragazzi e questo apparve a Cecilia già un successo insperato. Fu contenta di essersi sbagliata: forse non tutto era perduto per quella ragazzetta che giocava a fare l’insegnante. Magari sarebbe riuscita davvero a tirar fuori del buono anche dai suoi compagni.
Persa ad indagare nel futuro di quell’innocente, Cecilia si accorse che in quel gioco a chi ne sparava di più, lei proprio non c’era. Eppure fantasia  non le mancava. Iniziò a pensarci ma il frutto della sua immaginazione la colse di sorpresa spaventandola per la sua pericolosa veridicità.
Ricordò la fissa di quella giovane supplente: i lavori di gruppo. Aveva annunciato quella calamità sin dal primo giorno e, fresca di studi ed ansiosa di fare i suoi esperimenti didattici, con tutta probabilità, aveva deciso di passare finalmente all’azione. L’idea che con orrore si materializzò nella mente di Cecilia era che, dietro a quelle maledette quattro penne, dovessero situarsi altrettanti cervelli. Un concorso per gruppi. Per la precisione: gruppi di quattro. Quattro penne da usare poco per scrivere e molto per ficcarsele negli occhi, in senso figurato e non.
Ah, com’era bella la vecchia lezione d’italiano con la terribile ed anzianotta Candiali, che spiegava e interrogava con note e registro, ognuno da solo, sul suo  banchetto. Nessun pericolo di innovazioni strampalate che la mettessero in contatto con quella brutta gente che le stava attorno. Per rapportarsi coi compagni restavano solo quei pochi minuti di ricreazione, che si potevano anche sopportare ma solo perchè erano dieci, nei casi più fortunati anche cinque, se la prof non aveva finito l’argomento. Ma c’erano anche le giornate di vera pacchia, quelle in cui, causa comportamento, la ricreazione si saltava del tutto e si andava in bagno rigorosamente uno alla volta. Bei tempi.
La situazione intanto era degenerata e la giovane professoressa stentava a ritrovare quel silenzio necessario per portare avanti il suo piano pernicioso. Cecilia cominciò a sperare: si sarebbe esasperato chiunque al suo posto.
Ed invece la sospirata nota di classe non arrivò. Al suo posto la folle proposta avanzò con l’inesorabile tenacia di un carrarmato.
La furbastra aveva colpito con una mossa inattesa e più di qualcuno iniziò a tirar bene le orecchie: era entrata nello specifico a parlare di premi. Nessuno sapeva cosa avrebbe dovuto fare, il contenuto, il modo, eppure il premio, quello sarebbe stato il primo punto da trattare per poter ottenere un po’di attenzione. Era una dritta quella ragazzetta vestita da prof. Sta a vedere che sul serio avrebbe dovuto condividere banco e foglio con tre di quei suoi bravi compagni. Chi? Un esercizio di fantasia, quello, che non le piacque per niente.
«E partiamo allora dalla fine e cioè dal premio: una vacanza-natura a Lampedusa con il WWF per il gruppo dei quattro giovanissimi scrittori più meritevoli.  Che ve ne pare?»
Cecilia fu sul punto di svenire. La sua ipotesi era dannatamente giusta. E dopo il danno si prospettavano anche le beffe, perchè, nel malaugurato caso in cui avesse vinto il concorso, avrebbe dovuto essere premiata con un soggiorno ad Alcatraz. Perchè, si fosse chiamata Lampedusa, Seychelles o in-capo-al-mondo sempre di un penitenziario si sarebbe trattato.
Non era infatti distante né dal tempo né dal cuore la brutta faccenda della settimana verde, nella quale, per un’odiosa burla di quattro compagne, capeggiate da quella iena di Matilde, si era trovata a passare un’intera nottata nel seminterrato dell’albergo e precisamente nella casetta dei Tre Porcellini della stanza-giochi, in attesa di una festa che mai si sarebbe tenuta. Era finita che la professoressa d’inglese, per fortuna, aveva scoperto tutto: a Matilde & C arrivò una bella sospensione mentre Cecilia si dovette accontentare del ludibrio dell’intero Istituto. Non gliel’aveva mai perdonato.  
Catturati i pollastri con la faccenda del premio, la giovane insegnante pensò di cavalcare l’onda di quel suo successo con un discorsetto ben fatto.   
«Io non vi conosco, quindi la cosa migliore è che decidiate voi come formare i gruppi. Prima di iniziare a dividervi, ascoltatemi bene però: il concorso non ha solo il fine di farvi riflettere sui problemi ambientali ma ha un altro scopo ben preciso: quello di stimolare i ragazzi a lavorare in cooperazione. Significa che bisogna imparare non solo a parlare ma anche a farsi capire e per farsi capire bisogna che gli altri abbiano imparato ad ascoltare»
Cecilia trovava interessanti quelle parole, in teoria s’intende, ma vide che, mentre si parlava di ascolto, ad ascoltare era solo lei. Lei e Laura, per la precisione, situata al capo opposto della classe. Dei suoi compagni non ce n’era uno che ponesse attenzione a quelle parole tanto accorate. Passati direttamente alla fase pratica, stavano già applicando consolidate strategie cooperative quali: parlottare a voce più o meno alta e fare gran uso delle mani per far segni molto espliciti, del tipo Vieni con me, Vai con loro, e così via, con gran profusione di indici in movimento puntati verso questo o quella e quell’altra no, pure in gola per le sistemazioni meno gettonate.
Fatto sta che, alla fine del discorsetto, ognuno aveva capito poco o nulla di quella proposta ed al contrario aveva un’idea già abbastanza chiara di come si sarebbe ripartita in gruppi la classe.
Ma c’era un problema.
«Ho capito perchè vi state agitando» disse la Nivato, stremata e con la gola che urlava rabbia e dolore, in senso metaforico naturalmente, visto che la sua potenza vocale si stava pian piano stabilizzando verso uno stato di semi-afonia. «È evidente che ventitre non è divisibile per quattro. Tranquillizzatevi, faremo cinque gruppi da quattro e uno da tre. Quattro penne è indicativo, serve a richiamare in voi lo spirito di collaborazione, anche il gruppo da tre è ammesso, nel caso di esigenze particolari» E, frustando le corde vocali, riuscì ad aggiungere nel fracasso oramai incontenibile: «Adesso che ne direste di ascoltare quello che dovete fare?» 
Nessun risultato. Semplicemente perchè il problema non era solo matematico. Ce n’era uno di molto più serio e di tutt’altra natura. Tragicamente evidente appariva il pericolo che incombeva su ognuno dei presenti in quella classe: Cecilia. A chi sarebbe capitata la mina vagante?
Matilde era agitatissima: con il suo gruppetto storico, Fiorenza, Annalisa e Raffaella, aveva malauguratamente avuto un piccolo diverbio poco prima. Aveva fatto l’offesa e si era girata dall’altra parte senza badarle per tutta la mattinata, tanto sapeva che, come al solito, non sarebbe durata. Ma ora, in quel gioco ai quattro cantoni, rischiava seriamente di farsi fregare il posto da altri, appostati come falchi.
Tutto per quella brutta storia della matematica che non voleva il ventitre in nessun caso divisibile per quattro. Per tutti era chiaro infatti che nel resto di tre ci sarebbe stata sicuramente Cecilia e assieme a Cecilia quella nuova che non piaceva a nessuno. Ma per arrivare a tre mancava ancora uno. Uno solo abbandonato al suo misero destino: ecco spiegato il perchè di tanto allarme, ecco spiegato perchè con una calamità del genere nessuno potesse avere nient’altro in testa che la propria sopravvivenza.
 «Visto che non mi state ad ascoltare, sistemiamo questa storia dei gruppi una volta per tutte. Collocatevi, senza rovesciare la classe, mi raccomando, nei sei punti raccolta che vi indicherò ora»
Non fu una buona idea, anzi pessima. Chissà se gliel’avevano insegnata all’università. Fatto sta che si scatenò un putiferio: ognuno correva cercando di mettersi in salvo al riparo di qualcun altro, spostando sedie e urtando banchi al proprio passaggio. Tra urla selvagge e qualche spintone, cadevano gli astucci e venivano calpestati piedi e quaderni. La cosa colse di sorpresa la supplente, lasciandola senza parole, che peraltro nessuno stava udendo da un pezzo.
Poi, come per miracolo, cadde nell’aula una quiete strana.
Venti paia di occhi, al sicuro dai loro punti raccolta, osservavano attenti le mosse delle ultime pedine che si muovevano incerte sulla scacchiera.
Veramente l’unica delle tre pedine a muoversi era Matilde, che si aggirava spaesata come uno spettro inquieto. Guardava ora a destra, ora a sinistra, poi si girava su se stessa colpendo ogni angolo di banco che le passava a tiro. L’avevano mollata le sue fedeli compagne, abbandonata al suo infelice destino. Non ci poteva credere, non si capacitava di come fosse arrivato un simile tiro e proprio da loro. Ad un tratto si sedette e abbassò gli occhi, arresa all’evidenza della propria sciagura.
Cecilia invece non si era mossa dal proprio banco, tutto a destra in prima fila. Nemmeno Laura da quello più indietro all’estrema sinistra. Al segnale della giovane professoressa erano restate sulle proprie seggiole come se la cosa non le riguardasse.
Per alcuni istanti rimasero sedute in tre, sotto gli sguardi insistenti dei compagni, poi, insieme, si alzarono e si diressero verso la supplente.
«Non venite da me, avete il vostro punto raccolta, quello del sesto gruppo. Quello! Ma...mi capite quando parlo?» specificò la Nivato, indicando la zona accanto alla lavagna.
Farfugliarono ognuna qualcosa ma, quando tutte si accorsero che la loro unanime richiesta era quella di andare in bagno, tacquero simultaneamente. Cecilia fu la prima a dirigersi verso la lavagna. La seguì Laura, Matilde invece chiese ripetutamente, disperatamente, di andare in bagno e la professoressa gliel’accordò senza dire altro, colpita da quegli occhioni azzurri che sembravano un mare di lacrime. Poi proseguì con la sua spiegazione: «Bene ragazzi, ora che abbiamo affrontato con successo lo scoglio più duro, possiamo cominciare a lavorare, che ne dite?»
I più stavano ancora commentando le sorti di Matilde.
«Allora vi interessa o no sapere come meritarsi una bella vacanza a Lampedusa?» L’argomento riuscì a riportare sul binario giusto gran parte della classe e, confortata, la Nivato entrò finalmente nel merito.
«Una storia, scrivere una storia tutta vostra, un romanzo breve costruito da voi con tanto di capitoli. Abbiamo un mese per lavorarci e consegnare il lavoro entro la data di scadenza: il sette novembre».
I ragazzi, ancora raccolti a capannelli lungo i lati dell’aula, iniziarono a sedersi chi su una sedia, chi sull’angolo di un banco, scambiando sguardi poco convinti con i vicini. Ma ancora tacevano.
«Vi si chiede di scrivere ma su un argomento specifico. Come potete indovinare dal titolo del concorso, le penne lavoreranno assieme per l’ambiente. Ambiente: sarà questo il vostro tema. Sia ben chiaro: non una ricerca sui pinguini...» La giovane insegnante aveva creduto con la battutina di guadagnarsi qualche altro mezzo minuto di attenzione e ci restò un po’male nel vedere che con quelle parole non era riuscita a strappare loro nemmeno il più piccolo sorriso.
«Volevo dire: non si tratta di mettere assieme delle conoscenze, ma di muovere la fantasia per dar vita, come vi dicevo, ad una storia fantastica o verosimile, ad un’avventura, una fiaba o che ne so anche ad un...thriller...» Concluse la frase un po’ sottovoce, con un lampo di suspence negli occhi. I  ragazzi risero. La professoressa allora continuò più rinfrancata. Peccato che il successo non fosse dovuto alla sua breve interpretazione alla Dario Argento ma alla battutina sommessa di Silvio sul pinguino squartatore.
Cecilia dentro di sé aveva una rivoluzione. Avrebbe voluto gridare tutta la sua gioia per quello che le si stava proponendo di fare. Finalmente scrivere per qualcosa che le interessava davvero, utilizzare la scrittura per dar voce al meraviglioso mondo della propria immaginazione. E per l’ambiente, oltretutto. Sembrava pensato apposta per lei quel concorso! Avrebbe urlato il suo entusiasmo, baciato la prof, saltato per tutta l’aula dalla contentezza. Ed invece non aveva il coraggio di muovere nemmeno gli occhi. E a paralizzarla non era il disinteresse dilagante nell’aula che avrebbe tagliato gli entusiasmi a chiunque temesse di sentirsi diverso, a quello Cecilia c’era abituata per bene e la veste dell’alieno non le andava più così stretta. Teneva gli occhi bassi perchè aveva paura di incontrare quelli di Laura. Di Matilde non le interessava niente, con quelli come lei aveva già vinto la sua battaglia: ora sarebbe riuscita perfettamente a non soffrire per qualunque cosa avesse potuto farle. Se c’era o non c’era o se restava in bagno ancora per un’ora o due giorni, poco le importava.
Era Laura che temeva, quella Laura che ora le stava finalmente vicina.
Come lei, in piedi accanto alla lavagna: il loro punto raccolta. La paralizzava l’idea che, alzando lo sguardo, avrebbe potuto incontrare sul suo viso un’espressione anche solo neutra. Il suo più grande desiderio in quel momento era di vedere quegli occhi, di cui non ricordava nemmeno il colore, brillare di gioia come i suoi: il solo pensiero di dar vita assieme a dei personaggi usciti dalla loro immaginazione non poteva lasciarla indifferente. Un pezzo di quella storia viveva già dentro di loro. Ed anche se era una storia lasciata, anzi interrotta, appena agli inizi, c’era, esisteva ed urlava il suo desiderio di farsi raccontare. Possibile che quell’urlo lo sentisse solo lei?
Cecilia alzò gli occhi, decisa a rompere quel ghiaccio che lei stessa aveva creato e parlò: «Pacific vortex, ricordi? Noi l’idea ce l’abbiamo già, vero Laura?»
Laura finalmente incrociò il suo sguardo e non esitò: «Sì, ma parla piano, altrimenti ce la rubano...» le rispose sottovoce, sorridendo.
«Hai ragione, magari le sirene si arrabbiano...» aggiunse Cecilia, scoprendo tutte le sue carte. Laura rise e più che per la battuta rise perchè era contenta, contenta che le sue sirene esistessero anche per Cecilia.
In quel momento le due ragazze capirono di avere davanti a sé un viaggio meraviglioso da intraprendere assieme: iniziato tra i rifiuti dell’Oceano Pacifico, le avrebbe portate chissà dove. Magari, perchè no, proprio verso le coste di Lampedusa. Dovunque fossero arrivate, comunque, l’avrebbero fatto insieme. Primo premio: un’amicizia vera.







Capitolo 3
PIEDI MOLLI

I ragazzi disposero i banchi in gruppi di quattro come era stato loro comandato e, quando il fracasso di tavoli e sedie si fu attenuato, l’insegnante si rivolse agli alunni: «Ora ascoltate bene come dovrete svolgere il lavoro: prima di tutto avete bisogno di una buona idea che piaccia a tutto il gruppo. Mi rendo conto che questa decisione possa farvi impiegare un bel po’di tempo. Pazienterò. Trovare il soggetto giusto è molto importante »
Cecilia e Laura si guardarono scambiandosi un sorrisetto vittorioso: sapevano di avere un bell’asso nella manica. La buona idea, anzi la buonissima idea, era già nel cassetto e che piacesse a tutto il gruppo, a Matilde in altre parole, non sfiorò minimamente il pensiero né dell’una né dell’altra.
Silvio alzò la mano e domandò: « Prof, va bene una storia a fumetti?» Lo disse mentre gli altri tre del gruppo gli tiravano la maglia e, tra risolini soffocati, gli facevano cenno di stare zitto.
«Mi dispiace no» rispose la Nivato «si tratta di scrivere un romanzo, l’ho detto prima»
«Peccato» fece Silvio. Una compagna nel frattempo aveva già fatto sparire sotto il banco il foglio con un paio di simpatiche vignette che mostravano Jack, il pinguino squartatore, in giro per i ghiacci con il coltello serrato nel becco e una zampetta insanguinata sotto l’ala.
«Vi può essere d’aiuto pensare ad un ambiente da cui vi sentite attratti o meglio ancora da qualcosa che vi piacerebbe comunicare in difesa del nostro pianeta» continuò la professoressa, tutta concentrata sulla sua proposta. 
Il gruppo che comprendeva le tre amiche di Matilde si mise prontamente all’opera ed iniziò col prepararsi gli esercizi di grammatica per il giorno dopo. Anche gli altri avevano formato dei gruppi di cooperazione altamente efficienti con ruoli ben ripartiti tra chi svolgeva gli esercizi di matematica e chi quelli d’inglese, in modo che ognuno potesse copiare dall’altro, risparmiando tempo e fatica. Naturalmente c’era anche il ruolo del palo pronto a far scomparire il corpo del reato nel giro di un istante.
Solo il gruppo di Silvio non era ancora al lavoro perchè Silvio, col suo pinguino, continuava a far perdere tempo a tutti gli altri che, di quel passo, non sarebbero mai riusciti a liberarsi dei compiti per il pomeriggio.
«Quando avrete trovato un accordo sull’idea, iniziate a parlare a ruota libera, aggiungendo tutti i particolari che vorrete sull’ambiente e la situazione iniziale. Più riuscirete ad essere dettagliati e più sarete in grado di condurre per mano...» L’insegnante si interruppe per un istante e guardò verso la porta: era rientrata Matilde. «...il lettore ovunque vorrete. Fatelo come un gioco a chi ne inventa di più, sentitevi liberi e lasciatevi andare, vedrete che un’idea tirerà l’altra. Di fondamentale importanza sarà il prendere appunti, altrimenti rischierete di scordarvi tutto. Ruotatevi il compito, così tutti potranno partecipare attivamente all’invenzione del racconto. L’altro punto importante sarà la scelta del protagonista...»
Cecilia e Laura erano incantate nell’ascoltare quella lezione di scrittura creativa distratte solo dalla loro stessa fantasia che viaggiava libera come il vento. Figuriamoci se avrebbero mai potuto notare Matilde che prendeva una sedia per accomodarsi accanto a loro, un po’in disparte.
Solo grazie a quegli unici due volti che mostravano per la sua proposta autentico rapimento, la professoressa riuscì a finire la sua spiegazione e non certo con lo stesso entusiasmo con il quale l’aveva iniziata. Dopo un po’ evitò addirittura di guardarsi troppo intorno, per non rischiare di demoralizzarsi.
«Al lavoro adesso!» disse praticamente rivolgendosi solo a Cecilia e Laura, visto che gli altri, a loro modo, erano al lavoro da un pezzo.
La giovane supplente avrebbe avuto una voglia matta di triplicare i compiti per casa, visto che quelli assegnati erano fin troppo a buon punto. Sarebbe stato piacevole anche interrogare mezza classe su ciò che nessuno aveva ascoltato. Una bella strage di due. Sarebbe stato bellissimo. Note a casa, sul registro, perchè no: qualcuno dal Preside. Ed invece non fece niente e si limitò a sedersi sulla cattedra, fingendo di guardare il registro e pensando a quelle lezioni universitarie che l’avevano così egregiamente abbindolata: avrebbe sicuramente dovuto rivedere alcune cosette su quel suo bel metodo d’insegnamento appena nato e già defunto.
Cecilia e Laura invece erano al settimo cielo, eccitate come bimbette davanti ad un giocattolo nuovo ancora mezzo avvolto nella carta regalo.
Seguendo il consiglio della Nivato, iniziarono col raccontarsi a vicenda ogni particolare di quel loro mondo fantastico sospeso a metà tra acqua e rifiuti e le loro parole fluivano come da due copiose sorgenti in un’unica pozza cristallina.
Il primo mattone fu di Cecilia, a seguire Laura, nella formidabile costruzione di quel loro strepitoso castello in aria, anzi in acqua.
«Erano lì da sempre e s’erano viste aumentare a vista d’occhio quella massa di schifezze attorno a loro»
«Tanto che quelli più giovani credevano che stare in mezzo ai rifiuti fosse la normalità e che forse si sarebbero annoiati avendo intorno a loro solo acqua»
«Addirittura le giovanette avevano imparato ad utilizzare a loro modo quell’immondizia, pensa che si mettevano in testa delle specie di ornamenti fatti intrecciando i sacchetti di plastica»
«E se i ragazzi trovavano dei fiori di plastica, poi, diventavano matti»
«Fiori di plastica? I ragazzi?»
«Perchè no? Ognuno ha le sue usanze. Se li mettevano attorno al collo come gli hawaiani» specificò Laura.
«Uh che meraviglia, fiori di plastica attorno al collo... E se li legavano attorno alle braccia e alla coda, anche se così facevano un po’ fatica a nuotare» aggiunse Cecilia divertita.
«Sì, ma era pazzamente alla moda»
«Molto trendy erano anche i due contenitori di polistirolo a mo’ di reggiseno, al posto dei conchiglioni di madreperla. Che hai? Fa tanto ridere?» domandò Cecilia stupita dallo sguardo divertito di Laura.
«Sì, è fortissimo. E difatti i conchiglioni erano roba classica, da antichi, ai giovani faceva miseria»
«E ai vecchi  non piaceva niente come si vestivano i giovani»
«Ma dai! Come a mia mamma, insomma»
«Sì, ma era anche perchè i vecchi in quelle cose di plastica vedevano il male perchè quelle cose tutte colorate che tanto piacevano ai giovani stavano invadendo il loro mondo ed erano sicuri che avrebbero portato prima o poi a qualcosa di terribile» aggiunse Cecilia più seria.   
«Ma i giovani dicevano che erano tutte invenzioni, solo per brontolare»
«I vecchi dicevano che in pochissimo tempo quella massa di rifiuti che chiamavano...»
«Macchia» decretò Laura.
«...Macchia?»
«Sì, Macchia, perchè la vedevano come qualcosa di sporco e di sbagliato»
«Ok, Macchia. I vecchi dicevano che la Macchia si ingrandiva e loro così erano costretti ad allontanarsi sempre più dal centro del loro universo, dove confluivano tutte le correnti, dov’erano abituati a vivere da migliaia di anni.»
«Ma perchè non potevano restare al centro?» l’interruppe Laura.
 «Perchè c’era poca luce sotto la Macchia, non si stava bene, anche perchè per emergere bisognava attraversare trenta metri di rifiuti. Non sono trenta?»
«Sì, sì trenta. Ma poteva essere divertente attraversarla, no?»
«A me farebbe un po’schifo» commentò Cecilia.
«Lo facevano apposta quelli giovani, si divertivano a prendere la rincorsa e ad attraversare con un unico slancio tutta la Macchia»
«Ma era pericoloso?»
«No»
«Secondo me, sì»
«Perché?»
«Perchè quando sbucavano al di sopra dei rifiuti non sapevano più dove si trovavano» specificò Cecilia.
«E non potevano tornare giù?»
«Potevano, ma non era tanto facile perchè in mezzo alla Macchia era facile perdersi...»
«Dai, facciamo che qualcuno si perdeva?» fece Laura, illuminandosi.
«Figo!»
Cecilia e Laura si guardarono immobili per un istante.
 «Uh...gli appunti...ce n’eravamo dimenticate!» esclamò Laura con gli occhi tondi e una mano sulla fronte.
«Completamente!»
 Sembravano due corridori che, partiti a razzo, si fossero dimenticati di prendere i tempi.
«E adesso ci ricordiamo cosa abbiamo detto?»
«Guarda, stanno tutti scrivendo! Tutti, proprio tutti, le uniche a non organizzarci siamo state noi...»
«Già, e voi bla e bla e bla!» Matilde comparve in quel momento seduta sul banco a fianco, come se si fosse materializzata in quell’istante.
Furono entrambe tentate di chiederle cosa diavolo ci facesse accanto a loro. Ma evitarono la brutta figura, ricordando con orrore che Matilde era in gruppo con loro ed aveva tutto il sacrosanto diritto di dire la sua. Così restarono zitte, come sorprese con le mani nel sacco.
«Mentre voi siete tutte prese dal vostro bla bla, io sto scrivendo da un pezzo invece!»
«Cosa stai scrivendo?» l’assalì Cecilia, preoccupata.
«Gli appunti di quello che state dicendo sto scrivendo! Visto che non ho tutta la vostra fantasia, almeno faccio qualcosa»
Cecilia ebbe l’impressione che Laura si sentisse in colpa per averla esclusa e l’ascoltò farfugliare qualcosa a metà tra un complimento e una scusa. Cecilia non aggiunse nulla, spiazzata: sarebbe stato impensabile, fino all’anno prima, immaginare un comportamento del genere da parte di Matilde. Ma, forse, era maturata durante l’estate, aveva riflettuto, le era morto il cane o chissà cosa non si sa, fatto sta che sembrava davvero un’altra e dava l’impressione di voler far parte sul serio del loro gruppo.
«Ci faresti leggere?» chiese Cecilia garbatamente, alla fine di quel rapido esame di coscienza.
«Sorpresa! Ve lo faccio leggere la prossima volta, così vi accorgerete che senza i miei appunti avreste dimenticato tutto quello che avete detto» rispose Matilde molto più riconoscibile, stringendo strettamente a sé il suo block-notes. In esso custodiva il frutto dell’impegno di quella mezzora di lavoro concentrato e silenzioso: le frasi in spagnolo alle quali stava lavorando fino ad un attimo prima.
Cecilia che, confidando in quella sua ipotetica redenzione, aveva messo da parte tutti i buoni motivi per sospettare di lei, non reagì per nulla a quel bizzarro rifiuto, decidendo che quello era lo scotto per averla giudicata male. Certo non era il caso di gettarsi ai suoi piedi implorando perdono, ma con quegli appunti provvidenziali, la sua storica nemica si era guadagnata un’incredibile nuova chance. Guardò Laura nella speranza di vedere insistere almeno lei per dare un’occhiata a quei fogli ma anche Laura se ne restò muta. Nel sacco assieme a farsi compagnia.
«Va be’, noi ci fidiamo allora, gli appunti li prendi tu» sentenziò alla fine Cecilia.
«Vi fidate? Grazie!» rispose Matilde ironica, mostrandosi risentita per quella fiducia accordatale un po’a denti stretti «faccio finta di non aver sentito. Allora, procediamo?» domandò con la penna pronta sugli esercizi di spagnolo «dov’eravamo rimasti? Vediamo un po’... ah sì che qualcuno si perdeva». Era riuscita a giostrarsi egregiamente le uniche parole che aveva udito.
«Grazie Matilde» fece Laura sinceramente. Matilde si tenne il grazie senza sentirsi per nulla in colpa. Anche perchè quel grazie lo sentì appena, rituffatasi subito in un passaggio particolarmente delicato della sua traduzione.
«La Macchia era una trappola per quei giovani scavezzacollo» riprese Cecilia.
«E stavamo dicendo di mettere in pericolo qualcuno. Chi?» domandò Laura.
«Ma scusa Matilde, cosa scrivi di nuovo, se abbiamo ripetuto le stesse cose di prima?» domandò Cecilia, poi, nel vedere Matilde assorta nel suo scribacchiare, alzò un po’ la voce: «Ma insomma, mi stai a sentire?»
«Eh? Ma cos’hai? Sto lavorando, non vedi? Perdo il filo se m’interrompi!» disse Matilde come se fosse stata distolta senza motivo da quel suo lavoro intrapreso con tanta serietà. Cosa che, per certi versi, corrispondeva alla pura verità.
«Io dico di farci annaspare in mezzo proprio la protagonista» riprese Laura, dopo aver lanciato a Cecilia uno sguardo di rimprovero per quell’uscita ingiustificata verso Matilde.
«La protagonista?»
«Sì, femmina, se non ti dispiace»
«Non mi dispiace affatto»
A quel punto Matilde, nella mente di Cecilia, passò decisamente in secondo piano. Si stava entrando nel cuore della questione, un cuore vivo e pulsante: il suo. Cecilia ce l’aveva un’idea già molto precisa sulla protagonista. Così precisa che avrebbe voluto consegnarla a Laura già preconfezionata con un bel cartellino: Non toccare. Non era giusto e lo sapeva, ma temeva che sacrificare sull’altare dell’amicizia quella sua creatura sul nascere, sarebbe stato un atto dalle conseguenze inimmaginabili. Tanto che ebbe paura di continuare. Tanto che anche Laura si fermò.
Nel lungo silenzio che seguì, la tensione si stemperò proprio grazie a Matilde che continuava a scribacchiare senza sosta quando loro non stavano dicendo nulla. Fu allora che la solerte scrivana, accorgendosene per caso, riemerse dai suoi appunti.
«Beh? Avanti con le idee! Altrimenti io che ci sto a fare? Non vorremo farci fregare dagli altri, vero?» esclamò indicando i compagni che agitavano con grande impegno la penna sui quaderni. «Oh, non è che vi metto in imbarazzo? Quando non sapevate che scrivevo mi sembravate più sciolte. Se volete smetto e cerco di dire anche io la mia, per quel che posso. Magari scrive una di voi, era stato anche detto di ruotare i compiti, mi pare»
«No, no» si affrettò Cecilia, presa in pieno nella rete.
«Adesso ci concentriamo, scrivi pure tu, se non ti dispiace» ribadì Laura, con altrettanta ingenuità.
 «Io un’idea ce l’ho, sai...» fece Cecilia decisa finalmente a vuotare il sacco «Mi piacerebbe come protagonista una sirena»
«Perfetto»
E fin qua tutto bene, c’era da aspettarselo. I guai cominciavano ora.
«Sì, ma... non proprio normale»
«In che senso?»
Cecilia si sentì morire. Eppure Laura non aveva detto ancora nulla di preoccupante per le sorti del suo personaggio. Non c’era ragione di soffrire a quel modo.
«In che senso?» ripetè Laura, non sapendo come reagire a quell’espressione inquietante che era apparsa sul volto di Cecilia. «Voglio dire...più bella, più brutta?»
«Più brutta, forse. Brutta come sirena»
«Una sirena brutta?» chiese Laura meravigliata, senza nascondere la delusione.
Cecilia si riscosse, non poteva arrendersi per così poco: «Sì, ma anche bella» specificò. «Brutta perchè era diversa da chi le stava intorno, bella perchè aveva capacità diverse, che nessuna delle sirene normali poteva avere»
Laura tacque.
Era per interesse o quel silenzio preparava un imminente rifiuto e, peggio, una diversa proposta?
A Cecilia tremava la voce e si vergognava terribilmente al pensiero che Laura se ne accorgesse: «Immaginiamo che un umano si accoppi con una sirena...»
Matilde alzò gli occhi dagli appunti catturata dai nuovi sviluppi dell’argomento.
«Qualche dettaglio in merito? Se mi raccontate come fanno, giuro di non lasciare indietro neanche una parola!»
A Laura scappò da ridere. A Cecilia per nulla.
«Matilde, mi fai concentrare?» esclamò con un tono durissimo, sproporzionato. Laura trasalì. Matilde sorrise come chi la sa lunga sulla matta che aveva a fianco.
 «Dicevo, magari non è proprio detto che salti fuori, come al solito, un essere con il corpo da persona e la coda da pesce» riprese Cecilia, imponendosi di ritrovare la calma.
«Già, potrebbe saltar fuori un disgraziato con il corpo da pesce e le gambe da persona! Posso scriverlo sugli appunti?» La sua stessa battuta provocò a Matilde un convulso di risate. Pur non avendo nessuno con il quale condividerlo, durò troppo a lungo anche per Laura che, a quel punto, aveva decisamente rinunciato a qualsiasi tentazione di prendere la cosa con un po’ di leggerezza ed aveva quasi l’impressione che in un attimo quell’esercizio di fantasia si fosse trasformata in una questione di vita o di morte.
«Posso continuare?» fece Cecilia gelida.
«Ma certo, capo!» fece Matilde sull’attenti.
Cecilia continuò con lo sguardo fisso su Laura: «Allora, da un’unione tra umani e sirene potrebbe saltar fuori una mezza sirena. Una sirena con le gambe, ma gambe non normali, strane, a mezza via tra gambe e coda, cioè del tutto simili a gambe ma solo fino ai piedi. Piedi molli come una coda, incapaci di sostenere il peso del suo corpo ma meravigliosi in acqua, perchè possono muoversi agili quasi come quelli di una sirena. Ma quei suoi mezzi piedi, che tanto inorridivano i suoi simili, avrebbero potuto aprirle nuovi orizzonti, se solo avesse scoperto che non esisteva solo un mondo fatto di acqua. In un certo senso era più fortunata perchè, con un po’ di buona volontà, avrebbe potuto conoscere una realtà tutta nuova a cui non avrebbero mai potuto adattarsi quelli del suo popolo»
Cecilia finalmente aveva mostrato tutte insieme le sue carte e si sentiva fiera di averlo fatto, di esserci riuscita, vincendo il timore di un possibile rifiuto. Ora il responso, la sentenza.
Ma non fu Laura a parlare, bensì Matilde, troppo divertita dallo stare al gioco con quelle due matte: «Devo proprio scrivere dei piedi molli? Mi farebbe un tantino schifo, se permetti»
Cecilia decise di lasciarsi andare alla sua visione. Era troppo bella.
 «La pelle del viso e delle braccia era liscia, morbida, come la nostra, ma simile anche a quella di un delfino perchè bisognosa di costante umidità»
«Guarda che io scrivo: pelle grigia come quella di un delfino»
«Ha detto grigia?» intervenne Laura.
«No, ha detto a macchie bianche e nere come quella delle orche. Anzi, meglio...vellutata come una megattera, le incrostazioni gliele togliamo con un bel lifting...»
«Ma chiudi quella ciabatta, la vuoi lasciar parlare?» sbottò Laura.
Troppo felice per quella reazione inaspettata, Cecilia continuò molto più serena: «Dal seno in giù era coperta di squame argentee e verdeazzurro ma solo fino all’inguine, quasi a sembrare un costume intero molto attillato. Le squame andavano curiosamente a fondersi con la pelle delle gambe che tornava ad essere simile alla nostra fino ai piedi-pinna, dove ricomparivano, sotto la pianta, di nuovo le squame» 
«Bellissima, proprio bellissima» mormorò Laura fissando il vuoto. Vuoto riempito da quel personaggio curioso e affascinante a cui anche lei già iniziava ad affezionarsi.
«Oh, bellissima» commentò Matilde con tutt’altro tono.
 «Bellissima, cosa? L’idea?» domandò trepidante Cecilia a Laura, tappando i suoi timpani ad ogni vibrazione sonora proveniente da Matilde.
«Sì, sì anche l’idea, ma dico, lei è bellissima, vero? Il volto, intendo?» specificò Laura estasiata.
«Certo che era bellissima, bellissima come una sirena: aveva i capelli verdeazzurro come le squame, iridescenti come madreperla, no...non completamente, solo in un ciuffo qui, da un lato» Cecilia indicò i propri capelli e Matilde non perse l’occasione per sporgersi verso di lei ad osservarli ma non ebbe molta soddisfazione perchè le altre due non la videro nemmeno «La sua chioma foltissima, ondulata e lunga fino alla vita era bionda perchè non era del tutto una sirena...gli occhi blu cobalto, profondi come il mare, le ciglia e le sopracciglia blu cobalto anch’essi, i lineamenti perfetti, labbra gentili e...»
«Verdi»
«Hai detto qualcosa, Matilde?» disse Laura con piglio arcigno, da vera  guardia del corpo di quel personaggio appena nato le cui sorti sembravano esserle diventate molto care.
«Ha detto labbra verdi» balbettò Cecilia con la voce tremula come avesse ricevuto la peggiore delle offese.
«Non posso dire nemmeno verdi ? No, dico, vi ho offeso perchè ho detto verdi
Cecilia con gli occhi della disperazione, cercava di mantenersi calma: «No, no...cioè, certo che puoi anche dirlo» Nella sua testa era improvvisamente balenato il rischio del tutto reale che quella pericolosa scrivana avesse potuto anche reclamare da un momento all’altro il diritto alla rotazione dell’incarico. Doveva assolutamente cercare di mediare, di assecondarla, di darle almeno un contentino per tenerla buona. Non era il suo stile, non lo era per niente, anzi quel suo comportamento accondiscendente nei confronti  di quella sabotatrice di professione la faceva rivoltare ma allo stesso tempo proprio non se la sentiva di mettere la sua bella Scilli, così sperava di poter chiamare il suo personaggio, in pericolo. Labbra gentili e verdi. Mai.
«Fatemi capire, voi potete metterle i piedi molli, che mi fa schifo solo a pensarli, e io non posso metterle le labbra verdi
Non faceva una piega. Cecilia tacque perchè in una storia del genere non capiva più di chi fosse il torto o la ragione. Fatto sta che quel verde bisognava toglierlo e a tutti i costi.
Idea: mettere la faccenda ai voti.
«Allora votiamo, chi non è d’accordo per le labbra verdi?»
Laura alzò la mano di scatto.  
Matilde le guardò con aria compassionevole: «Siete patetiche. Va bene, va bene, sono in minoranza e lo sarò sempre quindi scrivo e scrivo. Gli appunti naturalmente, che non potrò certo aspirare al ruolo di scrittrice con voi. Niente paura, c’erano gli schiavi una volta, no?»
Cecilia capì che Laura, nonostante le divergenze, si stava sentendo maledettamente in colpa per come stavano trattando chi, in fin dei conti, era il terzo membro del loro gruppo. È vero, stavano comportandosi da grandissime prepotenti, pensò Cecilia, senza sentirsi sulle prime troppo in colpa: Matilde aveva troppi debiti nei suoi confronti. Poi riflettè ulteriormente, cercando di ragionare un po’ più col cervello che con lo stomaco: erano sufficienti le malefatte trascorse a giustificare una dittatura del genere? In fondo fino a quel momento Matilde era stata utilissima ed anzi avrebbero dovuto esserle grate per quegli appunti che sulle prime aveva preso di sua iniziativa. Magari era davvero cambiata, magari quella poteva essere un’occasione per vivere un rapporto diverso, per scoprire una Matilde diversa. Forse assieme a loro, se pur forzatamente, avrebbe potuto far emergere la parte migliore di lei. Una parte migliore tutti ce l’hanno. Bastava crederci.
«Va bene, Matilde, facciamo come dici tu, aveva le labbra verdi» disse Cecilia con una specie di nodo alla gola.
«Pisello»
«Pisello?» esclamò Laura.
«Verdi pisello, io me le immagino così, che ci posso fare? Ed anche un po’ fosforescenti»
Cecilia rimase sospesa tra i suoi buoni propositi e la tentazione di urlarle una sintesi completa di ciò che pensava. Ebbe quasi paura di se stessa, tanto che restò muta. Forse per il momento avevano lavorato abbastanza, avrebbero ripreso la settimana seguente nelle ore di antologia come aveva annunciato la Nivato.
Per fortuna ci sarebbero stati gli  appunti di Matilde.



 


Capitolo 4
GLI APPUNTI

La giovane professoressa alzò finalmente gli occhi dal registro.
In realtà, davanti a quelle due pagine aperte sulla cattedra, non stava facendo o guardando nulla da un pezzo. I suoi occhi erano sul registro semplicemente perchè il registro era sotto i suoi occhi. Ciò che stava fissando era lo sconfinato deserto pedagogico in cui l’avevano lasciata quelle due tragiche ore di ‘antologia’.
E quel lutto gridava vendetta.
«Bene, tempo scaduto. Quel che è fatto è fatto, riprenderemo la prossima settimana»
Qualcuno dei ragazzi l’ascoltò e storse il naso: non sarebbero riusciti a liberarsi dei compiti per il pomeriggio.
La Nivato continuò: «Ora ogni gruppo mi leggerà i propri appunti. Il voto va sul registro»
Lo disse andando a prendere il registro dalla cattedra e lo fece con tutta calma, immaginando, con infinita gioia, veloci scambi di occhiate stordite dietro le sue spalle. Assaporato a pieno quel magnifico gelo che andava calando dietro di lei, si avvicinò con l’arma in mano ad uno dei gruppi.
Era quello di Silvio ed il pinguino era ancora sul banco.
«Bene, questo sarebbe il fumetto, immagino. Complimenti, una bella schifezza. Mi auguro che i vostri appunti siano ben più interessanti. Chi di voi vuole iniziare a leggerli?»
I ragazzi parevano statue di ghiaccio.
«Sto aspettando»
Ancora silenzio.
«Nessuno quindi ha niente da leggermi?» Le sue parole stavano uscendo con  un tono inatteso. Perfido. Nemmeno lei stessa si sarebbe aspettata che quella pentola a pressione che aveva nell’animo potesse esplodere in modo così inquietante, quasi a sua insaputa. Ciò comunque le piacque parecchio e le diede una forza nuova. Nuova e sinistra.
Continuò pacata come dinanzi ad un esercito giunto alla resa a cui veniva richiesto di consegnare le armi: «I vostri nomi e cognomi, uno alla volta»
Apprezzò quindi tutte le sfumature del terrore in quelle due parole che ognuno dei quattro ragazzi fu costretto a proferire e, percependo esattamente la fatica di ognuno di loro nel gestire il proprio nodo alla gola, appioppò, e senza batter ciglio, i primi due.
«Sarà dura per voi rimediare la sufficienza per il primo quadrimestre. Con un due...vediamo... la prossima volta dovreste prendere...non meno di dieci»
E si avvicinò al gruppo accanto.
«Allora, anche voi avete da mostrarmi un bel fumettino come quello?»
 Prese dal banco di una ragazza il quaderno degli appunti. Lo sfogliò, accorgendosi immediatamente che esso non conteneva nulla che riguardasse il lavoro proposto.
«È qui che hai scritto gli appunti? O...qui?» La sua mano era andata velocemente a posarsi sul quaderno di matematica che stava sotto al blocco degli appunti.
«Dimmi, quanto c’entrano i poligoni irregolari col racconto e ti risparmio il due sul registro»
La ragazza biascicò qualcosa del tipo: prof, ci abbiamo provato, non abbiamo avuto nessuna idea...Ne abbiamo avute troppe fece in contemporanea il ragazzo al suo fianco. L’insegnante stava già con la penna sul registro.
E toccò al gruppo delle grandi amiche di Matilde: Fiorenza, Annalisa e Raffaella. Annalisa accolse l’insegnante con un’inattesa espressione serafica.
«Prof abbiamo avuto un’idea bellissima, ci abbiamo lavorato tutte e siamo anche ad un ottimo punto. Se vuole gliela racconto»
«Gli appunti» tagliò corto la Nivato che si era finta cieca per tutto quel tempo accorgendosi invece perfettamente di quanto zelo avessero dedicato a tutto fuorchè a ciò che riguardava la sua proposta.
«Posso raccontargliela perfettamente, professoressa. Ci ricordiamo tutto, dovevamo metter giù le idee per iscritto proprio adesso...ma, sa com’è, nella foga. Allora...c’era un gabbiano che volava beato, un brutto giorno si appoggia sul mare, senza accorgersi che c’era una macchia tutta nera e sa cos’era? Petrolio! Prof... cosa sta facendo?»
La professoressa aveva già impugnato la penna, quando pensò che in quell’occasione poteva anche cercare di divertirsi un po’di più.
«Facciamo parlare un po’ lei, invece. Continua pure» Aveva indicato Raffaella.
La ragazza sbarrò gli occhi e rivolse uno sguardo supplichevole ad Annalisa, aprì la bocca ed emise un suono che non si tradusse in nessuna parola comprensibile.
Annalisa intervenne prontamente: «Ma daì, non ti ricordi? Chi l’aveva detto? Ma sì, Raffaela! Basta che pensi a cosa ha detto Fiorenza e vedrai che ti viene in mente tutto!» Annalisa, con quella mossa, aveva cercato di prendere un po’ di tempo, nella speranza che il cervello di Raffaella si prendesse cura in fretta di quello stupido gabbiano sul petrolio. Ma ahimè, la poveretta annaspava tanto quanto il suo gabbiano e non ci fu niente da fare nè per l’uno nè per l’altra. Il  pensiero di Annalisa andò a Matilde: con lei se la sarebbero cavata, accidenti.
«Bene, Fiorenza, tu ti ricorderai senz’altro di quello che hai raccontato alle compagne, no?»
Fiorenza in queste circostanze era in genere un po’ più sveglia di Raffaella ed Annalisa ebbe qualche speranza nelle sue capacità d’improvvisazione.
«Certo prof » rispose Fiorenza con una certa disinvoltura «allora...il gabbiano era tutto imbrattato di petrolio, poverino»
«Già, poverino» aggiunse la professoressa spietata.
«Era tutto nero» Pausa «Nero come la pece» Lunga pausa «Come il petrolio, insomma». La Nivato godeva e le tre compagne, guardando gli occhi fissi di Fiorenza, cominciarono  a rassegnarsi all’idea di quel due che si stava avvicinando con pericolosa velocità.
Poi una luce nello sguardo della ragazza: «Il petrolio, ad un certo punto, si trasformò in un’immensa torcia che arrivò fin quasi a lambire l’infelice»
Gli sguardi delle compagne, alla luce di quelle fiamme, sembrarono riprendere vita.
«Il poveretto, tutto imbrattato, iniziò a dimenarsi, ma più si dimenava e più s’imbrattava. E adesso arriva il bello. Ecco che proprio in quel momento giunse...»
«Basta così, ora vai avanti tu»
Gli occhi della professoressa si erano posati sull’ultima componente del gruppo, quella che aveva soffiato il posto a Matilde. Era diventata bianca.
«Ti chiami?»
«Marianna» rispose in un sussurro.
«Cognome?»
«Ferro» Un altro sussurro.
«Me lo vuoi dire questo bello che arriva in cosa consiste? Sono curiosa, sai » Nel cervello di Marianna disgraziatamente non si muoveva nulla. Annalisa pensava a Matilde con infinito rimpianto.
«Arriva questo bello o non arriva?» Continuò la Nivato, catturata  dalla sua stessa spirale di vendetta. Ed intanto faceva scorrere il dito sul registro.
«Se vuole glielo racconto io, mi è venuto in mente benissimo» cercò di intervenire Fiorenza.
«No, no. Me lo racconta proprio Marianna.»
«Ah, sa cosa, prof ? Poveretta, era quel momento lì che era andata in bagno» intervenne Annalisa, lanciandosi al salvataggio.
«E si è persa il bello? Ma che peccato!» ed aggiunse, tornando ad infierire su Raffaella: «Scommetto che anche tu eri in bagno». Quest’ultima iniziò quasi a piangere, stava malissimo tanto che la professoressa pose fine alla tortura e si avviò a concludere l’esecuzione.
Scrisse sul registro altri quattro due e cambiò tavolo.
Il tavolo di Cecilia.
Cecilia aveva seguito la scena esterrefatta: mai si sarebbe aspettata che la ragazzina vestita da professoressa per qualche imprecisato incantesimo potesse tramutarsi di colpo in una temibile strega torturafanciulli. Che i fanciulli se lo meritassero in pieno questo era un altro paio di maniche, fatto sta che, pur sentendosi orgogliosa del proprio lavoro, aveva anche lei iniziato a lottare contro la propria agitazione, completa di vampate e batticuore.
«Riuscite almeno voi a leggermi qualche appunto ben fatto?» chiese la professoressa animata stavolta da reale speranza. Aveva osservato il gruppetto e non le era sfuggito il profondo impegno con il quale quelle due ragazze, che l’avevano seguita con tanto interesse durante la spiegazione, si erano dedicate a quel gioco di fantasia.
«Certo» disse Laura, come chi, con un poker in mano, non sta nella pelle di scoprire le proprie carte «vi sta bene se leggo io gli appunti?»
Cecilia annuì: era contenta perchè a lei sarebbe sicuramente tremata la voce. Per fortuna c’era Laura.
«Me li dai?» chiese a Matilde.
«Un attimo» rispose Matilde a Laura che stendeva la mano verso di lei.
Matilde sfogliò ad una ad una le pagine del suo block-notes. Le sfogliò in avanti, le sfogliò indietro in un silenzio imbarazzante. La professoressa, per il momento, continuava a tacere con gli occhi fissi su quei fogli ispezionati innumerevoli volte con calma e perizia, come fossero sotto le mani di un’investigatrice esperta.
Poi, freddo, il responso: «Professoressa, ecco»
Matilde porse alla professoressa il block-notes, aprendolo bene nel punto dove si inserivano i fogli. «Vede prof ?»
«Cosa?» rispose la giovane supplente quasi con candore.
«Le vede queste tracce tra un foglio e l’altro?»
La professoressa prese il blocco e lo esaminò a sua volta nel punto indicato.
«Ha capito adesso ?» Il tono sfiorava l’inquisitorio e per un attimo sembrò che le parti potessero invertirsi.
«Sembrerebbe che fossero state strappate delle pagine» rispose l’insegnante, arruolata lì per lì nella squadra investigativa di Matilde.
«Quelle pagine erano i miei appunti, quelli che io ho scritto con queste mani, professoressa, e io non so, ripeto non so, chi abbia potuto strapparli a mia insaputa» Nel far questo aveva diretto un’occhiata pericolosa verso Cecilia. Particolare che non potè sfuggire nè a Laura nè alla supplente.
«Sentite un po’, voi due, ascoltatemi bene perchè ora voglio una risposta precisa» La professoressa, rivolgendosi a Laura e Cecilia, sembrò finalmente essersi riappropriata del proprio ruolo e ciò suonò alle due inquisite paradossalmente più rassicurante.«Io vi ho visto lavorare con i miei stessi occhi e mi è parso di capire che a prendere gli appunti fosse in effetti Matilde» Cecilia e Laura annuirono in silenzio. «Io vi domando: li prendeva sul serio?»
Laura partì a razzo: «Certo che li prendeva, sotto i nostri occhi li prendeva, addirittura ha iniziato a prenderli prima ancora che glielo dicessimo, è stata brava, altrimenti avremmo perso tutto l’inizio. No, professoressa, si sbaglia se crede che non abbia lavorato. Non si è persa una parola, se davvero non ci sono più lì dentro, vuol dire che qualcuno li ha strappati, accidenti! Abbiamo detto una marea di cose e mi secca proprio perchè adesso non so se ci ricordiamo tutto, vero Cecilia?»
Cecilia taceva.
«Vorrei proprio sapere chi è stato» continuò Laura inarrestabile: «qualcuno di invidioso verso di noi che abbiamo voglia di fare, ecco! Bisogna trovarli questi fogli, posso andare a vedere nel cestino, prof ?»
«Non occorre che ti scomodi» disse Matilde gelida, sempre fissando Cecilia «gli appunti c’erano, fino a quando li ho appoggiati sul banco. Esattamente qui» Ed indicò un punto all’estrema destra del proprio banco «e cioè, nel momento preciso in cui lei, professoressa, ha detto di smettere di lavorare»
«Spiegati, Matilde, cosa vuoi dire?» intervenne la professoressa, incerta se dare un qualunque taglio alla faccenda o farsi coinvolgere da quelle appassionanti indagini.
«Voglio dire che dopo che lei ha parlato, dai banchi non si è mosso nessuno. Credo che ce lo ricordiamo bene perchè nemmeno una mosca volava mentre lei girava col registro»
La classe iniziò a rilassarsi, molti annuivano, qualcuno, addirittura, osò qualche piccolo commento. La nota di classe era stata evitata e l’eventuale punizione sarebbe toccata ad una di quelle tre. Poco male.
«Matilde, parla chiaro, cosa vuoi dire?»
«Io non voglio dire niente, prof. Dico solo che qui dentro probabilmente ci sarà qualche folletto dispettoso. Lo chieda a Cecilia, lei forse se ne intende. Di folletti, dico.»
Laura si girò verso Cecilia e la guardò come fosse diventata di colpo una persone diversa.
«Cecilia...tu...non è che tu...»
«Cosa TU? Cosa vorresti dire, dillo dai!» sbottò Cecilia che sembrava a quel punto davvero un’altra. Quel TU le era arrivato come una pedata sullo stomaco e ne era ancora tutta scossa. È vero: le era passato per la testa il sospetto che davvero fosse stata Cecilia. Imperdonabile se Cecilia a quella storia fosse stata totalmente estranea. Ma c’erano quelle labbra verdi che bruciavano come ferite aperte e l’antipatia profonda verso la compagna che sembrava aver radici forti e dolorose tanto da non escludere rivalse di qualsiasi genere. In fondo non la conosceva per nulla. 
«Scusate ma io non capisco più niente» decretò alla fine Laura.
«Brava! Chi non ha capito niente è meglio che tenga chiusa la bocca. Potrebbe dire stronz...»
«Cecilia Fillini, stai esagerando, guarda che il due te lo metto in condotta!»
«E io dico invece che hai capito fin troppo, Laura» replicò Matilde veloce come un serpente. Laura vide a quel punto che lo sguardo di Cecilia la stava trapassando da parte a parte. Il linguaggio di quegli occhi era chiaro e non andava per mezzi termini: difendimi o è finita.
«Cecilia...io...io non volevo»
«Non volevi...cosa, Laura? Dai, vai avanti» intervenne Matilde «non avresti mai voluto dire davanti a tutti quanto sono stata trattata da schiava, forse? Voi ad inventare, a divertirvi e io a scrivere quello che dicevate, senza poter mai alzare gli occhi dal foglio. Sissignore, signorsì, che se qualche volta osavo dire la mia, oddio, apriti cielo! Se non è vero, per favore Laura, apri la bocca e dillo!»
Laura, presa tra quei due fuochi ardenti, non ebbe la lucidità per dire nulla, anche perchè Cecilia non gliene volle lasciare il tempo, rivolgendosi a Matilde con ferocia: «Non osavi dire la tua? Non dirmi che veramente pensavi di blaterare qualcosa di buono con le tue labbra verdi pisello fosforescente? Ti credevo una gran furba e non una povera testolina!»
La professoressa aveva assistito a quel furioso battibecco da perfetta spettatrice e, abbandonato nuovamente il proprio ruolo, continuò a seguire la vicenda come travolta da qualcosa di più grande di lei.
«I piedi molli invece sono da gran scrittrice, no? Ma cala un po’ quelle ariette da genio incompreso, ci hai sempre snobbato, tutti quanti! Sa, prof, Cecilia non si mischia con noi, poveri ragazzi stupidi. Attenta, Laura, perchè tu non la conosci, noi, invece, sono due anni che sopportiamo i suoi tiri da pazza. Lei viaggia alto, se ne sta a mezzo metro da terra e ci guarda tutti dall’alto. Figuriamoci, prof, se un’umile mortale come me poteva dire mezza parola sulla sua storia meravigliosa! E io la mezza parola, ma solo mezza, che altre non me le ha lasciate dire, invece l’ho detta. E’andata su tutte le furie che quasi piangeva...e sa perchè? Perchè sapeva che sarebbe stato suo dovere far parlare anche me, l’aveva raccomandato lei stessa, se lo ricorda, prof ? Vuol sapere come la penso sui miei foglietti scomparsi? Le sarà venuta una crisi di nervi e, in uno scatto da fulminata, avrà strappato tutto. Dillo tu Laura se non è vero, se non diventava di tutti i colori quando io provavo a dire la mia!»
Laura tacque ancora e a Cecilia parve quel silenzio più lacerante di tutto quello che aveva sentito da Matilde sul suo conto.
«Anzi no, prof » affondò Matilde «Lo so, è brutto da dire ma forse si è fatta furbetta ed invece di perdere le staffe come al solito, senza combinare un fico secco, stavolta ha fatto di meglio»
Suonò la campana della ricreazione. Contrariamente al solito, sembrò che nessuno l’avesse sentita. Nel silenzio ancora intatto Matilde riprese: «Non li ha strappati i miei appunti. Se li è tenuti, perchè le facevano assai comodo, ma li ha fatti sparire per far credere che fossi stata io a strapparli. Per cosa poi avrei dovuto farlo, non si sa»
Cecilia, in un istante capì che, se non reagiva in tempo, oltre ad aver perduto gli appunti, il suo meraviglioso mondo di sirene e quel piccolo seme d’amicizia in cui aveva tanto creduto, paradossalmente correva il rischio di procurarsi anche un due sul registro con tanto di nota sul comportamento.
«Per cosa avresti dovuto farlo, sarebbero stati affari tuoi» sentenziò Cecilia più che mai determinata «che quegli appunti in realtà non li hai mai scritti, invece, se permetti, sono proprio affari miei. Cosa scrivevi davanti a noi, nascondendoti il quaderno? Verbi? Espressioni? Vocaboli d’inglese? Tu vuoi far fessi tutti quanti. Mi perdoni, prof, lei compresa»
La professoressa aprì la bocca, pensando che avrebbe dovuto reagire in qualche modo, ma Cecilia fu più veloce di lei perchè volle rispondere subito allo sguardo attonito di Laura, che sembrava cadere dal cielo in quel medesimo istante: «Tu non sai, Laura, non hai idea, non hai la minima idea di quello che Matilde può essere in grado di fare. Non ce l’ha nemmeno lei, professoressa ma le posso dire che va al di là di qualsiasi immaginazione. Dimmi, Laura, quegli appunti li abbiamo mai visti noi, con i nostri occhi? Diglielo alla prof se li hai mai visti, o se invece Matilde si è tenuta stretta quei fogli con su scritto chissà cosa, senza farcene mai vedere nemmeno una parola!»
 «Li hai visti o non li hai visti, Laura?» fece allora la professoressa, tornata per un istante al suo posto.
«No» rispose la ragazza con un filo di voce.   
 La professoressa, a quel punto, avrebbe volentieri ceduto la cattedra per uno qualsiasi di quei banchi. La cedette invece e con sommo piacere all’insegnante dell’ora successiva. Questa, invece che dal consueto chiasso da ricreazione inoltrata, fu accolta da un’atmosfera da Corte Giudiziaria e, un tantino imbarazzata, domandò: «Disturbo?»
«No, no, ora fanno ricreazione»
Detto ciò, la supplente salutò cordialmente la collega e se ne andò come se nulla fosse. In fondo lei poteva cambiare aula, pensò Cecilia.








Capitolo 5
DESTINAZIONE SCONOSCIUTA

Cecilia, uscita da scuola, lungo la strada che la riportava a casa, ripensava a quella mattinata sconvolgente in cui aveva trovato finalmente un’amica e nel giro di poche ore l’aveva anche persa.
Ma possibile che, come Laura, dovesse rinunciare anche a Scilli?
Scilli no. Scilli poteva essere salvata. Lei la poteva salvare, da sola l’avrebbe fatto, perchè era creatura sua e lei aveva il potere di farla vivere e di renderla felice. Al diavolo il concorso, al diavolo Lampedusa, le amiche e l’amicizia: Scilli doveva vivere, Scilli doveva essere felice quanto lei non poteva esserlo. Per questo avrebbe dedicato il suo tempo a scrivere, per conto suo, senza bisogno di nessuno, perchè quella sirena disgraziata potesse scappare da quel mondo ostile, fatto di rifiuti profondi trenta metri. Fuggita attraverso l’oceano, sarebbe giunta là, dove avrebbe trovato un mondo tutto diverso che l’avrebbe accolta ed amata.
Quei pensieri erano così intensi e profondi che ben poche cose al mondo avrebbero avuto il potere di distrarla. Nemmeno l’aver continuato dritta per una strada che non c’entrava niente col suo percorso abituale, mentre avrebbe invece dovuto svoltare a destra verso casa.
Quel potentissimo qualcosa invece le si presentò davanti ed ebbe la facoltà di cancellare dalla sua mente ogni pensiero precedente.
Si chiamava Nicola e lei conosceva quel nome non certo perchè ci fossero state delle presentazioni, ma perchè l’aveva letto nella sua tesserina della biblioteca dimenticata per qualche istante vicino allo schedario presso il quale Cecilia sostava, in attesa della bibliotecaria.  Fu quel fatidico giorno in cui lo vide per la prima volta mentre cercava l’ultimo di Harry Potter. Caso volle che fossero lì insieme proprio per lo stesso libro e lui fu così gentile da cederglielo. La cosa parve a Cecilia talmente inaudita, viste le infelici esperienze con i coetanei della sua classe, che ne restò profondamente colpita. Senza fiato ci restò anche per un altro motivo, quello però era un po’ più difficile da individuare. Non era sicuramente così bello da far schiantare al suolo le ragazze ma in lei aveva prodotto e continuava a produrre esattamente quest’effetto.
Non c’era Laura, Matilde o anche Scilli che tenesse al confronto, tutto passò in secondo piano in quell’attimo in cui si accorse della sua presenza. E anche stavolta temette seriamente di liquefarsi ai suoi piedi.
Il ragazzo, incontrandosela proprio davanti mentre tornava a casa assieme ai suoi compagni di classe, non la ignorò. Persino la salutò e ciò fu assolutamente troppo. Un astronauta appena atterrato sulla Luna non avrebbe potuto avere un’espressione più spaesata di quella di Cecilia in quel momento. Lo sguardo che doveva aver fatto, scoprendo lì per lì di non essere sulla strada giusta e di non sapere nemmeno dove si trovava, doveva essere apparso a quel gruppetto di un’irresistibile comicità. Risultato: lui passò avanti, lasciando dietro di sè l’eco delle risatine dei suoi compagni senza che lei fosse nemmeno riuscita a rispondere al suo saluto. E siccome non aveva senso proseguire, perchè di lì non andava certo a casa, e nemmeno tornare indietro, con l’altissimo rischio che si credesse ad un inseguimento amoroso, se ne restò ferma sul posto per un’infinita manciata di secondi. Quelli bastevoli a scatenare una nuova tranche di risatine in chi l’aveva tenuta scrupolosamente sotto controllo.
Troppo per una sola mattinata. Non vedeva l’ora di tornare a casa e mettersi a piangere sul cuscino e ricevere un bacio dalla mamma che l’avrebbe consolata e alla quale non avrebbe raccontato niente. Poi sarebbe arrivata sua sorella che avrebbe voluto inventare con lei una storia con le barbie, avrebbe fatto i compiti e prima di coricarsi sarebbe andata avanti con Eragon fino a sentirsi chiudere dal sonno le palpebre. Sarebbe stato bello, bellissimo, ciò che di meglio potesse chiedere al mondo. Ma per il momento era impossibile: doveva andare avanti per quella strada sconosciuta visto che star ancora lì piantata in mezzo era la peggior cosa che potesse fare.
Andò avanti per un centinaio di metri finchè la strada si strinse chiudendosi con un paio di villini. Una ragazza seduta sul gradino del portone, con la testa reclinata in avanti fino ad appoggiarsi sulle ginocchia, sembrava curiosamente voler schiacciare un pisolino. Aveva i capelli identici a quelli di Laura. Ne riconobbe i calzoni e le scarpe. Era Laura e stava piangendo.
«Cecilia!» le gridò come al cospetto di un angelo.
Cecilia non rispose e non si mosse.
«Cecilia, grazie...sei venuta, non me l’aspettavo» esclamò alzandosi e correndole incontro. Che Laura pensasse che era lì per lei era l’ultima disgrazia che poteva capitarle in una giornata come quella.
«Ma come sapevi che abitavo qui?» fece Laura con un sorriso fino alle orecchie. Cecilia non lo sapeva e non se l’era nemmeno domandato. Prima di tutto la finta amica che stava accogliendola con tanto ardore, amica stupida, amica traditrice, non c’entrava nulla con la sua presenza lì in quel momento: per distrazione o disperazione, per errore o per amore, per mano di una fata o di una strega. Certamente non era lì per lei.
«Cecilia, durante l’ora di geometria ho riscritto...anzi scritto, tutto quello che abbiamo detto»
Brava furba, voleva dirle, proprio la lezione prima della verifica. E per ottenere cosa, visto che non aveva più nessunissima intenzione di lavorare con lei?
Quella semplice rettifica, però, a proposito dello scrivere e del riscrivere i famosi appunti le parve ad un tratto più sostanziale di quanto le fosse apparso sul momento. Laura aveva quindi creduto alla sua versione, non a quella di Matilde e si era finalmente persuasa che quella grandissima imbrogliona le avesse prese in giro entrambe, scrivendo chissà cosa al posto degli appunti. Aveva capito anche Laura che la mascalzona, vistasi persa, aveva capito che, strappando due pagine a caso a loro insaputa, sarebbe riuscita ad evitare quel due dal quale non erano sfuggite nemmeno le sue scaltre compagne. Nel contempo avrebbe creato problemi a chi avanzava da lei più di una rivincita, roba da vantarsi per un anno intero.
E Laura aveva capito di essere stata usata. 
«A scuola non ho neanche avuto il coraggio di parlarti. Guarda, ho il cellulare in mano. Volevo chiamarti ma poi mi sono ricordata che non avevo nemmeno il tuo numero e il pensiero di trascorrere il fine settimana con questo peso, mi ha fatto andare in crisi. Invece tu mi hai cercato e mi hai trovato. Come hai fatto non lo so, so solo che sei grande! Hai già avvertito a casa? Dai, vieni su da me, che ci mettiamo subito a lavorare, lunedì portiamo alla prof le nostre idee così possiamo iniziare subito a mettere giù tutto bene come delle scrittrici. Non credi che un mese sia un po’ poco?»
Cecilia le sorrise: quell’onda anomala l’aveva travolta a tal punto da dirigerla dove mai avrebbe creduto. Forse a prenderla per mano era stata una fata.

Cecilia fu presentata alla madre di Laura come la più grande delle amiche e come tale fu accolta.
«Vedi» disse la mamma «mi avevi raccontato che era una classe atroce. Ma come facevi a dirlo! Era passato troppo poco tempo. Ma lo sai Cecilia, Laura non ha ancora perdonato mamma e papà per questo trasferimento: nuova casa, nuova città, nuova classe purtroppo, guarda ho ancora la casa piena di scatoloni. Stava troppo bene con i suoi compagni, un vero peccato, pensa che aveva addirittura il ragaz...posso dirglielo? E’ la tua migliore amica, no?»
«Ma mamma!» esclamò Laura un po’imbarazzata.
«Va bè, te lo dice lei, tanto è acqua passata mi pare, comunque io l’avevo detto: aspetta almeno un mese prima di dare certi giudizi. Come vedi, le persone in gamba ci sono dappertutto, basta non chiudersi a riccio, no?»
In risposta a quel no, Cecilia avrebbe voluto parlare di una valanga di cose:  fatti, speranze, delusioni, soprattutto delusioni. Così tacque, sorridendo stupidamente dove non c’era niente da ridere. Un sorriso bugiardo che le fece sperare che quella signora un po’invadente se ne tornasse al più presto a disfare scatoloni.
«Vieni, ti faccio vedere la mia camera» tagliò corto Laura.
Facendosi largo tra gli scatoloni accatastati lungo il corridoio, Cecilia raggiunse la camera di Laura.
«Scusa il disordine ma hai visto come siamo sistemati. Il papà mi ha montato il computer solo due giorni fa. Sediamoci sul letto che la poltrona è piena di roba» E si affrettò a chiudere la porta.
Quando Cecilia fu sul letto accanto a Laura, capì che non poteva tirare ancora avanti con quella farsa. Perchè di farsa si sarebbe trattata fino al momento in cui non si fosse decisa a far luce su ciò che era successo in quell’assurda mattinata. Ma Laura la precedette.
«Matilde è stata diabolica. Ha incastrato me, la prof, tutti...me l’avevi anche detto che era una gran furba ma come si fa ad immaginare un livello simile?»
«Bastava avere un po’ più fiducia in me di quanta me ne hai dimostrata»
«Sei arrabbiata? Tanto?»
Cecilia fece una smorfia indefinibile.
«Dì la verità, sei venuta qui per urlarmi di tutto, vero? Sai cosa ti dico? Avresti avuto ragione ed anzi, se vuoi, sei ancora in tempo a farlo. Ma magari fai alla svelta» aggiunse sorniona «che così ci mettiamo presto a lavorare»
Cosa poteva mai rispondere a quel punto? Forse il motivo, o il nessun motivo, per cui era là non valeva poi la pena di essere approfondito, così diede un taglio netto alla questione: «Faccio talmente presto che non inizio nemmeno e cominciamo a lavorare subito, ti sta bene così?»
«Aggiudicato!» rispose Laura, levandosi dal letto. Talmente alleggerita da quel peso che si portava dentro, si alzò con uno scatto sproporzionato per andare saltellando verso la cartella. Vi scartabellò dentro ed estrasse alcuni fogli con quegli appunti realizzati sacrificando all’arte e all’amicizia la sua verifica di geometria.
«Spero di non essermi dimenticata niente.»
E lesse:
Codabrutta non era brutta: era così che la chiamavano.
Nemmeno la coda di Codabrutta non poteva essere brutta perchè non era affatto una coda ma due gambe. Due gambe bruttine, fino al polpaccio esili ed eleganti ma con caviglie decisamente troppo snodate che potevano piegarsi mollemente a destra e a sinistra, avanti e indietro con un giro completo di 360 gradi. E questo perchè non erano sostenute da ossa ma da una struttura cartilaginea. I piedi poi, ricoperti sotto la pianta da squame, sembravano molto più pinne che piedi.
Gambebruttine avrebbe potuto dirlo un umano ma per il momento non c’era questo pericolo: Codabrutta viveva in mezzo a Sirene e Tritoni e gli umani non li aveva mai visti. Agli occhi delle sirene comunque doveva apparire qualcosa di veramente orribile. Una forma mostruosa e inquietante che nessuno di quell’antico popolo del Mare, fatto di Sirene e Tritoni, riusciva ad apprezzare per le originali capacità di cui quel corpo strano era dotato.

Cecilia aveva ascoltato con la bocca semiaperta dallo stupore. Avrebbe voluto dire mille cose ma quel pozzo di sorprese che leggeva, inarrestabile come un treno, non glielo permise. Si augurò solamente che il capolinea non si trovasse alla fine di quello che avrebbe dovuto essere il loro romanzo.

Ma in realtà Codabrutta era bella, molto bella.
Dalla vita in giù era coperta di squame ma solo fino all’inguine, quasi a sembrare un costume intero molto attillato che stranamente andava a fondersi con la pelle delle gambe. Proseguendo verso il basso, la sua pelle tornava ad essere simile a quella umana. Fino ai piedi-pinna, dove comparivano sotto la pianta di nuovo squame viscide e argentee. 
La chioma ondulata era lunga fino alla vita e foltissima. Era bionda ma aveva ad un lato un ciuffo verdeazzurro, dai riflessi iridescenti come madreperla. Aveva gli occhi blu cobalto, profondi e misteriosi come il mare, anche ciglia e sopracciglia erano blu cobalto, come disegnati dalle mani di un artista.

Si era risparmiata i particolari sulla bocca, Cecilia gliene fu grata.

Il suo era un popolo antico, il primo ad essere comparso sulla Terra precedendo anche le forme umane terrestri, ed era lì da sempre al centro di quelle correnti che nell’Oceano Pacifico formano un immenso vortice a spirale, un incontro di acque diverse provenienti da molto lontano. Erano quelle correnti a fornire loro una migliore ossigenazione dell’acqua, ideale per il loro particolare sistema respiratorio dove i polmoni erano internamente affiancati da vere e proprie branchie ed erano raramente usati in favore di queste ultime. Non avevano bisogno di uscire dall’acqua per respirare quindi ed era raro che lo facessero. Prima di tutto perchè non lo trovavano per nulla piacevole. Non c’era nulla di così interessante da fare o vedere che valesse il sacrificio: cielo, nuvole, onde, uccelli...un mondo bizzarro che poteva avere solo il fascino della novità ma che non poteva giustificare il fastidio, quasi il dolore del sole negli occhi, il respiro affannoso per l’inabitudine a trarre ossigeno dall’aria e la pelle sferzata dalla brezza marina che la seccava all’istante.
Quelle correnti, all’interno dell’acqua, ognuna con la propria velocità, creavano autentiche strade che quelle popolazioni percorrevano instancabilmente da migliaia di anni in una città frenetica fatta di pura acqua. Quelle correnti, ognuna con le proprie caratteristiche di colore e salinità, temperatura e trasparenza, creavano ambienti ai loro occhi diversissimi. Condomini, ricchi palazzi, viottoli, parchi e zone ricreative dove un occhio terrestre avrebbe visto solo e nient’altro che acqua...»

Era incredibile come Laura ricordasse tutto di quel loro primo incontro ed era straordinario pensare che quelle loro parole si fossero stampate dentro di lei con la forza di ciò che non si può dimenticare. Cecilia si sentì più protetta: quella penna, furiosamente lanciata a depredarla della sua creatura, dimostrava di essere più sensibile di quanto aveva immaginato sulle prime.

Ma era solo dagli ultimi decenni che le cose erano cambiate quando qualcosa di totalmente inconsueto aveva iniziato a comparire proprio al centro del vortice. Era quello il luogo che loro consideravano più sacro, dove le correnti sembravano girarsi attorno, creando colonne tortili preziose ed incantevoli, dove di notte lo scintillio del plancton, fluttuante in ampi giri verticali, ricordava lo sfarzo luminoso di un sontuoso palazzo. Il luogo ideale per la dimora dei loro sovrani.

Cecilia, rapita da quella descrizione, si trovava ora più al centro dell’Oceano che nella camera di Laura. Nemmeno Laura c’era più, non c’era la sua voce come pure la diffidenza verso colei che s’era impossessata dei loro scambi fantastici. C’erano le colonne tortili, lo scintillio del plancton e la dimora dei sovrani. Ogni ansia era svanita, fugata dall’immedesimazione in quegli abitanti del mare che soli potevano percepire gli infiniti aspetti di quel meraviglioso mondo d’acqua. Per poterlo vivere appieno non bastava calarsi con l’immaginazione sotto la superficie del mare ma bisognava diventare uno di loro, trasformarsi in sirena e strappare alla realtà preziosi istanti in cui vivere qualcosa di totalmente diverso e bellissimo. E attraverso quelle parole lei lo stava facendo.

Al di sopra delle loro teste, la superficie dell’acqua al centro del vortice non era mai stata pulita. Lì le correnti ammucchiavano da sempre grandi quantità di relitti naturali. Tronchi d’albero, rami e noci di cocco non avevano mai smesso di volteggiare sopra le loro teste. Ma ciò avveniva dove a nessuno importava niente perchè qualsiasi cosa galleggiasse sopra di loro poco aveva a che fare con quel mondo sommerso. Per migliaia di anni era stato così, finchè il materiale galleggiante non cominciò ad aumentare a dismisura ed invece di restare sulla superficie aveva iniziato ad occupare un sempre crescente spessore di Oceano. Non fu più necessario uscire dall’acqua per imbattersi in quel deposito fluttuante e col tempo non divenne più possibile ignorarlo.
All’inizio, quando gli stessi sovrani videro comparire nella loro reggia cristallina elementi mai visti quali bottiglie, flaconi, borse e sacchetti trovarono la visita di quegli insoliti ospiti un diversivo originale. Qualcuno della corte ebbe perfino il coraggio di avvicinarsi, di toccarli, di portarli in dono al Re e alla Regina. Poi seguirono i regali alle loro famiglie, ai loro amici, agli amici degli amici. Fu così che quegli oggetti misteriosi arrivati chissà da dove, da rifiuti qual erano in realtà, conobbero una seconda stagione trasformandosi in merce preziosa.
Presto gli oggetti fluttuanti aumentarono ed andarono a riguardare una porzione sempre più ampia attorno alla reggia. Quel ben di Dio iniziava a rendersi disponibile a tutti, tanto che ognuno capì presto come, invece di calarsi nell’abisso e raccogliere dal fondale marino materiale per la costruzione dei loro ornamenti, potesse essere molto più facile allungare una mano su qualche curioso oggetto. Fu così che di colpo la moda cambiò e al posto degli antiquati conchiglioni di madreperla iniziarono a comparire vaschette di polistirolo quali futuristici reggiseni. Non passò molto tempo che molti dimenticarono completamente le lunghe, fredde e faticose nuotate sul fondo. Molto più pratico e soddisfacente era raccogliere  sacchetti di plastica colorata ed intrecciarne brandelli per rendere molto più originali le proprie acconciature, soppiantando alghe e coralli che ormai avevano fatto il loro tempo.
In breve però la misteriosa massa iniziò a fagocitare il centro di quel loro universo e chi ne fece le spese per primi furono proprio i regnanti che, sottovalutando il problema, avevano lasciato con leggerezza che quelle nuove presenze diventassero parte del loro mondo.

Avvincente.           
Ma perchè Laura non si fermava un attimo, perchè non alzava mai gli occhi per chiederle un parere? La stanza ricomparve, ricomparve Laura e con essa la paura di lei che si stava prendendo tutto ciò che era anche suo. Quanto poteva essere andata avanti ancora nel tempo di una sola ora di geometria?

Col tempo i sovrani videro la loro reggia inghiottita da decine di metri di plastiche ammassate dove introdursi risultava difficile e pericoloso. Muoversi all’interno costava fatica, i movimenti diventavano lenti ed impacciati e, non capendo più dove ci si trovasse, era facile perdersi e girare a lungo prima di trovare come uscirne.
Ma c’era un altro pericolo che per poco non costò la vita proprio al principino, un tritonetto pieno d’argento vivo addosso che, per gioco, si era messo a nuotare più velocemente possibile in mezzo a quell’ammasso che si era stabilizzato al centro della dimora regale.
Disgraziatamente la pressione dell’acqua aveva improvvisamente appiccicato, contemporaneamente su naso e bocca del piccolo, un sacchetto della spesa, impedendo che l’acqua scorresse nelle sue branchie e quindi di respirare. Ciò non sarebbe stato nulla di particolarmente grave se, nel frattempo, una mano non gli si fosse impigliata in una retina di limoni che a sua volta stava attaccata ad un bidone della spazzatura. Nel tentativo di liberarsi, il bidone gli finì in testa, impedendo anche all’altra mano di raggiungere la faccia.  Per fortuna intervenne sua madre Yavalha, la regina, che prontamente riuscì a liberarlo prima che accadesse il peggio.
Da quel giorno i sovrani di quell’antico Popolo del Mare decisero di spostare la propria reggia in un luogo più sicuro restando sempre ai margini di quella che avevano da allora, ufficialmente, chiamato ‘La Macchia’. Questa, nell’ultimo decennio, aveva preso ad allargarsi talmente da rendere necessario spostamenti impercettibili ma quotidiani di tutta la popolazione, reggia compresa. Col tempo nessuno ci fece più caso, imparando a tenere come punto di riferimento proprio i margini della Macchia.
Intanto il re era morto e la regina Yavalha si dimostrava sempre più preoccupata per le sorti del suo popolo. Aveva spinto i maggiori studiosi ad occuparsi del problema e questi si erano alambiccati invano per capire quale potesse essere l’origine della Macchia.
Yavalha aveva cercato in ogni modo di contrastare quella stupida tendenza a vedere quel fenomeno come qualcosa di buono. Era convinta, come molti anziani consiglieri che ricordavano bene la bellezza del loro mare pulito, che la Macchia non potesse portare al suo popolo che danni e sciagure. Per prima cosa stava cambiando la sua gente e non la stava cambiando in meglio: tutti quegli strani oggetti di forma, dimensione e colori differenti erano diventati un’attrattiva irresistibile per i giovani e una tentazione irrinunciabile per i pigroni d’ogni età sempre in maggior numero che potevano così evitare lunghe nuotate sul fondo.

Era incredibile come quel fiume di parole stesse andando con precisione millimetrica proprio nella direzione che lei stessa auspicava. Sorprendente come riuscisse ad interpretare con lo spirito giusto quella situazione paradossale in cui i rifiuti venivano scambiati per progresso. Poteva essere resa meglio quell’idea comparsa per caso quel giorno in aula di informatica?
Sembrava che Laura avesse letto nel suo animo domande, perplessità e  paure, a proposito dei grandi interrogativi sulle sorti della Terra. Quelle che non riusciva a condividere con nessuno della sua classe e che erano state spesso scambiate per superbia intellettuale. L’altra ipotesi è che fosse interessata quanto lei al destino del Pianeta.

Veri e propri convegni aperti a tutta la popolazione si tennero invitando i migliori studiosi a discutere sul problema: la gente doveva essere informata delle conseguenze di quelle nuove abitudini.
Il primo di questi convegni non avrebbe dovuto spaventare nessuno. «Macchia e peso in eccesso»: la regina si aspettava un pienone che non ci fu proprio per niente.
«Macchia e morte» fu il secondo. Ma anche il titolone, che doveva servire a scatenare un qualche allarme, servì a ben poco. Avevano partecipato i soliti quattro gatti, i più avevano fatto spallucce, tacciando la regina di catastrofismo.
Difatti, anche se la salute di tritoni e sirene si era fatta più cagionevole negli ultimi tempi, il dubbio che potesse trattarsi di un qualche effetto misterioso della Macchia non sfiorò molte coscienze. Solo i delfini, da sempre attenti ai problemi del mare, avevano partecipato in massa. Essi comprendevano infatti senza problemi la lingua di quelle genti. La lingua dei delfini, d’altra parte, era comunemente parlata tra sirene e tritoni, in quanto anche quella del Popolo del Mare era basata su fischi ed ultrasuoni che potevano viaggiare nell’acqua per lunghe distanze.
 I delfini, a guardarsi intorno, nel vedere così pochi partecipanti tra Sirene e Tritoni, avevano fischiato commenti assai duri per quel comportamento vergognosamente irresponsabile nei confronti delle creature del mare. Tutti dovevano sapere delle misteriose morie di meduse che si erano verificate con sempre maggiore frequenza da quando la Macchia si era ingigantita. Soprattutto, secondo loro, non si potevano ignorare le morti inspiegabili di alcuni delfini. In riferimento a quei luttuosi casi, era intervenuta la vedova di una delle vittime che aveva giurato davanti a tutti che il povero delfino marito era perfettamente sano quando l’aveva visto per l’’ultima volta e che l’avevano trovato morto soffocato, dopo che si era recato a controllare l’avanzata della Macchia. Che un delfino morisse in quel modo era un fatto del tutto insolito che doveva far riflettere. Che dire poi della tartaruga marina che s’era salvata appena in tempo vomitando uno di quei sacchetti? E dei barracuda, cernie e merluzzi sempre più malaticci?  
«Macchia e Codaspaccata» fu uno degli ultimi convegni proposti dalla regina Yavalha. In quell’occasione si era cercato di capire se ci fosse un collegamento tra l’avanzare della Macchia e quelli che chiamavano Codaspaccata, esseri informi che con Sirene e Tritoni avevano una grottesca somiglianza. Talvolta capitavano sopra le loro teste, sospesi su isolotti galleggianti, ma per fortuna pareva che con loro non dovessero mai avere nulla a che fare.
Anche in quell’occasione erano stati invitati tre tritoni testimoni. Questi avevano riferito che i Codaspaccata se ne stavano per conto loro su curiosi isolotti di forma allungata che facevano puzza e un gran fracasso ma avevano anche il pregio di andarsene via veloci come erano arrivati. Solo l’ultimo testimone aveva aggiunto un particolare che, sulle prime, non era stato preso nella dovuta considerazione. Si trattava di un oggetto cilindrico, lungo e trasparente che, dopo essere stato accostato alla bocca di uno di quegli esseri, era finito in acqua, lanciato lontano proprio dalle sue stesse mani.
La cosa sollevò in seguito aspri dibattiti: di oggetti simili ce n’erano in abbondanza nella Macchia. Si trattava di un caso o in qualche modo quelle presenze aliene avevano una loro responsabilità in quel fenomeno inarrestabile?
La regina Yavalha era fermamente convinta che l’origine della Macchia fosse legata proprio a quelle creature dall’aspetto repulsivo. In che modo esattamente e come facessero a procurarsi quegli oggetti indistruttibili, se lo facessero per distruggere il loro popolo o per qual altro motivo fu il tema dell’ultimo convegno: «OCT (oggetti cilindrici trasparenti) da dove e perchè».
Ma anche stavolta l’iniziativa venne disertata. Ognuno era convinto che la regina avesse le ‘fisse’ e si mormorava addirittura che i testimoni nei convegni fossero poco attendibili. Nessuno, si disse, aveva visto per davvero quegli oggetti cilindrici in mano ai Codaspaccata e la vedova del delfino stava solo accondiscendendo la sovrana con quei suoi sospetti sulla Macchia. E a questo c’era un perchè: la Macchia doveva essere a tutti i costi qualcosa di brutto e sporco per la paura che la regina s’era presa quando suo figlio era piccolo. Una volta cresciuto non l’ascoltò più nemmeno lui, facendo esattamente come tutti gli altri giovani, sfruttando la Macchia per quello che di diverso dalla solita noiosa acqua poteva offrire. I giovani infatti avevano inventato persino un  nuovo passatempo: l’andare a caccia di oggetti rari ai margini di quell’ammasso curioso. Fiori di Plastica ad esempio, perchè sfoggiarli attorno al collo o alle braccia era pazzamente trendy e segno di gran virilità. Non è che facilitassero molto il nuoto, ma pazienza.
Le ragazze invece cercavano zebre, leoncini, paperette, pupazzetti di plastica di ogni tipo che legavano assieme per fare lunghe collane coloratissime. Nessuno sapeva quegli oggetti cosa rappresentassero, da dove venissero, che funzione avessero, sapevano solo che erano belli e colorati e che le facevano sentire molto seducenti. Assieme alle plastiche sui capelli e al polistirolo come reggiseno, naturalmente.
Una volta un tritone aveva trovato, tra cavallini e paperette, una sirenetta di quello stesso materiale. L’aveva lasciata là per paura di un altro convegno.

A Cecilia scappò da ridere ma si trattenne perchè Laura aveva alzato finalmente gli occhi. Doveva avere la gola secca, pensò.
«Hai...hai scritto tutto nell’ora di geometria?» fu la prima cosa che riuscì a dire.
«No, veramente, anche nell’ora di fisica e metà di quella di storia»
«Ah, meno male» rispose semplicemente. Stava per dire molto e molto altro e, siccome avrebbe sicuramente esagerato, restò a guardarla.
«Ho scritto tutto?» la precedette Laura, colta di sorpresa da quell’indifferenza.
‘Sì, sì. Hai scritto tutto. Tutto tu, infatti, e a me cosa resta?’ Avrebbe risposto. Invece riuscì ad essere meno caustica: «Brava, non ti sei dimenticata proprio niente, diciamo che...come appunti...ci hai messo un po’del tuo, no?»
Laura sorrise. Cecilia non riusciva a capire se cercava approvazione o perdono. Vero era che l’approvazione per quegli appunti che avevano tutta l’aria di un romanzo vero, e di quelli belli, che ti catturano e ti appassionano, c’era tutta. Il perdono? Bella domanda.
«Allora, se questo va bene, andiamo avanti con la storia no? Magari ci troviamo anche domani»
Ma come si poteva resistere ad un entusiasmo del genere? Perchè volerlo spegnere? Essere così possessiva nei riguardi di quella creatura a cui stavano dando vita entrambe non era giusto. Stava a lei imporre la sua parte di DNA e avrebbe cominciato proprio da quel Codabrutta che proprio non riusciva a digerire.
«Allora...innanzitutto Codabrutta non era il suo vero nome, immagino» fece Cecilia, sancendo lì per lì l’ora del battesimo. Adesso o mai più, pensò. «Il suo nome era Scilli, era così che l’avevano chiamata i suoi genitori»
«E dov’erano adesso questi genitori? Morti. Ho capito, erano morti»
«No no» disse Cecilia sorridendo, come qualcuno che sa e non vuole parlare.
«Ok, erano vivi ma erano spariti»
«Esatto»
«Ed erano una sirena e un umano»
«Sì sì»
«Sì sì, no no. Se sai qualcosa di più dimmelo e non fare la misteriosa!»
Chissà come le era finito il coltello dalla parte del manico, forse in segno di riconciliazione, pensò Cecilia. Ma disgraziatamente non aveva le idee chiare, proprio per nulla.
«Poi c’è da capire come mai era lì, forse era abbandonata» aggiunse Laura, assumendo un atteggiamento di preoccupante concentrazione. A Cecilia iniziò a battere forte il cuore, avrebbe dovuto batterla sul tempo ma, in preda all’ansia, sapeva di non essere in grado di combinare nulla di buono. Non era il caso di continuare, si sentiva troppo stressata da quel turbinare di eventi. Ma aveva tutta la sera di domenica per mettersi al computer. Quella storia dei genitori doveva essere assolutamente sua e avrebbe dovuto essere pronta per lunedì mattina. Sorprendente quanto e più di quella di Laura. Patti chiari, amicizia lunga. E siccome quell’amicizia doveva davvero essere lunga, bella e felice, i patti dovevano essere limpidi come acqua di sorgente.
«Sai una cosa? La verità è che sono frastornata. È successo di tutto e poi ...non capita tutti i giorni di ritrovarsi un’amica scrittrice!» Cecilia vide il volto di Laura illuminarsi di contentezza alle sue parole e continuò: «Ma siccome della faccenda dei genitori vorrei occuparmi io, ho pensato che i miei appunti te li faccio leggere dopodomani a scuola. Appunti stile i tuoi, s’intende. Vediamo se pensando di scrivere appunti anche a me saltano fuori pagine belle come le tue»
Nonostante il nuovo carico di complimenti, stavolta Laura non sembrò fare i salti dalla gioia.
«E io che cosa faccio?» chiese con aria supplichevole.
«Copi al computer quello che hai scritto in classe, ad esempio»
«Hai ragione! Così lunedì mostriamo tutto alla prof...e poi...meglio mettere le cose in salvo, magari in classe Matilde li vede e ce li usa come carta igienica!»
Cecilia e Laura si sciolsero in una grande risata che protrassero a lungo, in modo del tutto sproporzionato, fino alle lacrime.
Avevano bisogno di farla quell’interminabile risata per seppellire in quel modo quella storiaccia di Matilde. Ridere e ridere, per capire quanto meravigliosa potesse essere la loro amicizia dopo quell’interminabile lettura che per certi versi le aveva legate e per altri divise.
Ridere semplicemente perchè era bello ridere. Come si fa tra due amiche che assieme stanno bene sul serio.



 



Capitolo 6
LE ORIGINI

Nessuno aveva mai visto Yavalha con uno sguardo più cupo.
Eppure ne erano accadute di cose sotto gli occhi di quell’anziana sovrana. Durante il suo regno si era manifestato l’evento più incredibile e preoccupante che mai avesse scosso l’equilibrio millenario di quell’antico popolo. L’immensa Macchia si era allargata fin dentro al suo animo, le aveva distrutto la pace, generato un tarlo che la divorava ed il peso della responsabilità verso quel suo cieco popolo la stava facendo impazzire.
Eppure, quella sirena affranta che le stava davanti aveva il coraggio di chiederle tanto. Con quello che stava accadendo, con quello che era già accaduto.
Anche Yavalha aveva dei figli, sapeva cosa significasse essere madre, essere nonna ma non avrebbe mai potuto dimenticare quando il primo dei suoi figli, trent’anni prima, stava perdendo la vita proprio a causa di quella sciagura galleggiante che, cominciando dalla sua reggia, aveva devastato tutto il suo mondo.
Eppure, quell’anziana sirena aveva la faccia tosta di parlarle a quel modo. E proprio perchè era madre e proprio perchè era nonna osava farlo, contando sulla sua misericordia nei confronti dei fanciulli. 
Intorno alla regina i dodici sommi consiglieri: ondeggiavano nervosamente la coda, ognuno di loro impegnato a scoprire sul volto di Yavalha un’anticipazione di risposta a quella richiesta impossibile.
No e poi no: ognuno di loro avrebbe già dato la sua secca risposta. Al diavolo i fanciulli, al diavolo la pietà, qui si trattava del futuro del loro popolo e Yavalha avrebbe dovuto saperlo. Perchè ancora taceva?
«Lo so che vi sto chiedendo molto mia Regina, mi conoscete bene e sapete che non l’avrei mai fatto se non sentissi il mio cuore spezzarsi per questa creatura innocente che mi è stata affidata»
«E’ un mostro la tua creatura innocente, Attien»
Uno dei consiglieri, un vecchio tritone dalla lunga barba verde e sopracciglia folte e arcigne, era intervenuto e a quelle parole si levò un mormorio di disgusto per quella frase spietata. La Regina mosse la testa stizzita in direzione del Tritone, condannando quel tono.
La donna accarezzava teneramente il ciuffo verdeazzurro della piccina che aveva in braccio. Il resto della sua chioma era di un colore insolito, giallo luminoso, e scendeva oltre il braccio della nonna che ne sorreggeva la testa con infinita pietà.
«E’ tanto brutto quello che hai detto, Svael» commentò mortificata la vecchia sirena« per fortuna non può averti sentito perchè dorme. Dorme da venti ore, ormai»
«Svael allontanati, questo è un caso da trattare con la punta delle dita e non con artigli affilati come i tuoi» Yavalha era sempre stata una sovrana magnanima e non voleva avvelenare ulteriormente il calice amaro che avrebbe dovuto porgere a quella donna di lì a poco.
«Da quando è successo l’incidente, da quando l’ho tirata fuori dalla Macchia e l’ho liberata da ogni genere di schifezze che le si erano avvolte al corpo, non si è più risvegliata. E’ così che i piccoli si difendono: quando succede qualcosa che non riescono a sopportare, si addormentano. Lo farei anch’io se potessi».

Cecilia aveva pensato alla sua sorellina di cinque anni che dormiva nell’altra camera. Quando veniva sgridata per bene dalla mamma, dopo aver pianto a dirotto faceva proprio così, s’addormentava e in quel modo risolveva tutti i suoi problemi. Ogni tanto l’aveva invidiata.
Sentiva le sue parole scorrere a fiumi. Non aveva bisogno di rincorere un’idea perchè questa arrivava già bell’e pronta. Anzi, sembrava quasi venirla a cercare. Era come vivere in un altro mondo, un sogno ad occhi aperti quando gli occhi avrebbe già dovuto chiuderli da un pezzo, accoccolata sotto le coperte.

«Sognare, sì: se potessi vorrei sognare i suoi genitori che arrivano, mia figlia, la mia bella Edriel che viene a prendersela ed invece, quando si sveglierà, io dovrò dirglielo...» Attien aveva la voce rotta dal pianto.
La piccola ebbe un sussulto ed una gambina scivolò dal grembo dell’anziana sirena. Un mormorio impercettibile si diffuse tra i consiglieri mentre il tritone allontanato le allungò un’occhiata di disgusto nell’andarsene.
La nonna si affrettò a sollevare il piedino squamoso della nipotina e accostò assieme le due gambette. Guardava quelle insolite gracili pinne, tozzamente frastagliate in cinque piccole appendici simili a mani. Unite dalle sue mani potevano vagamente assomigliare ad una coda.
C’era pietà ora negli sguardi di molti consiglieri.
«Potremo legargliele assieme. Darà meno nell’occhio» propose una delle Sirene.
«Credo purtroppo che questo sia il problema minore» commentò Yavalha con un sospiro di rassegnazione. Attien sentì il cuore che le balzava nel petto.
«Cosa intendete Regina? Guardatela, avrà su per giù cinque anni e non si è ancora ripresa da ciò che lè è accaduto. Il suo faccino è dolce, io credo sia una sirenetta in gamba, forte e coraggiosa»
«Non è una sirenetta, Attien»
L’anziana sirena non volle far caso a quelle parole così amare e continuò:
«Due giorni a vagare dentro la Macchia, sola, con le braccia intrappolate chissà da quanto. Poteva morire in qualsiasi momento...»
La Regina trasalì a quella descrizione, l’avventura di suo figlio era un trauma che non sarebbe mai riuscita a cancellare. Anche per questo odiava così la Macchia. Anche per questo quella sirenetta informe non poteva diventare davvero una di loro. Il Popolo del Mare e quello dei Codaspaccata dovevano restare separati. La loro Macchia li aveva già danneggiati abbastanza, allontanandoli sempre più dal centro del loro universo. Chissà di quel passo dove sarebbero finiti.
«Accoglietela mia Regina, vi supplico»
Se quella sirenetta fosse restata in mezzo a loro avrebbe potuto generare altri mostri che avrebbero cercato le loro origini lontano, riconducendosi a quel mondo malfatto di creature malfatte, ripugnanti come la loro Macchia.
«Magari vi potrete abituare, iniziare ad amarla...»
«Basterà non abbassare mai gli occhi dalla cintola in giù» aggiunse sottovoce una delle Sirene Consigliere alla compagna di destra. Questa le rispose con un’occhiataccia. Alla sua sinistra invece qualcuno rise, ma sottovoce.
«Calatevi nei miei panni: sono stata messa dinanzi al fatto compiuto! Cosa potevo fare? Una figlia che parte all’età di soli diciassette anni, mi pianta in asso perchè dice di voler sciogliere a tutti i costi il mistero della Macchia. Ve la ricordate tutti Edriel? Vero, vero che ve la ricordate?»
Nessuno ebbe più il coraggio di commentare, anche il più piccolo mormorio sarebbe stato fuori luogo.

«Amore, cosa fai davanti al computer a quest’ora? Manca un quarto all’una! Potevi sbrigarti prima con le ricerche, no?»
«Non è una ricerca mamma. Anzi no, forse è una ricerca anche questa e una ricerca importante»
«Beh, se è così, sai tu se valeva la pena di fare così tardi. Mi faresti vedere?»
«Non adesso, mamma»
«Hai ragione, vai a letto, è tardi. Coraggio tesoro, che domani mattina non capisci più niente dal sonno»
Cecilia guardò l’ora inverosimile che si era fatta in quel tempo senza tempo in cui aveva vissuto davanti al computer. Era tardissimo, era da incoscienti restare alzati. Domani a scuola avrebbe dormito sul banco, non poteva permetterselo, c’erano le interrogazioni, le verifiche...A nanna, a nanna e senza perdere un istante.

Impossibile. Prendere sonno era impossibile.

«Edriel voleva scoprire, voleva capire, era una delle poche ragazze che non apprezzava la Macchia con le sue lusinganti attrattive. Voi ve la ricordate vero Yavalha? La pensava esattamente come voi, benchè così giovane, perchè sapeva vedere con occhi diversi. Questa piccola ha i suoi stessi occhi, io glieli ho visti, anche se per pochi minuti, prima che, sfinita, li chiudesse tra le mie braccia. Hanno di mia figlia la stessa luce profonda...» L’anziana sirena stava lottando con se stessa per poter continuare a parlare ma invano perchè ormai le parole si erano sciolte in lacrime.
«Non credere che non ricordi, che non capisca. Quando mi hai confidato che tua figlia aveva quest’intenzione, ti dissi di impedirglielo perchè era troppo giovane. Lo so di essere colpevole perchè in cuor mio benedicevo quel coraggio. Anche io volevo sapere. Quel giorno che partì davvero seguendo alcuni Codaspaccata sui loro isolotti, non avrei mai potuto credere che non tornasse»
«Era la sua ossessione: chi sono, da dove vengono? é da lì che viene anche la Macchia? E’giusto temerli, aborrirli, detestarli? E la Macchia per loro è un bene o un male? E per il nostro popolo cos’è?»
Yavalha annuiva grave.
 «L’ossessione che tormenta anche voi, mia Regina. Mia figlia scomparve per quel mistero. Dovreste ricordarvelo bene tutti quanti, prima di prendere qualsiasi decisione su questa creaturina»
«Ma non l’hai persa tua figlia, l’hai rivista, non era morta» aggiunse uno dei tritoni consiglieri.
«Certo che era viva. Mi è corsa incontro per abbracciarmi dopo sei lunghi anni. Ed era felice! Dietro di lei, un po’ distante, c’era la piccola che tengo tra le braccia tenuta per mano da una strana creatura tutta nera. Sembrava che i due aspettassero un suo cenno per venire da me»
«Era un Codaspaccata, vero?» chiese la Regina.
«Credo di sì ma respirava sott’acqua, mi risulta che i Codaspaccata non siano in grado di farlo. E poi era più orribile degli altri: era tutto nero fino alla testa ed anche le lunghe pinne erano nere, una per coda, era impressionante. La sua sagoma si stagliava in controluce contro l’azzurro rischiarato dalla luce del sole. Non riuscivo quasi a guardarlo per quella luce. Ho potuto vederlo bene quando mi fu abbastanza vicino: il volto era raccapriciante. Quello che aveva di peggio erano gli occhi: grandi! Occhi grandi come quasi tutto il viso, dalla bocca un tentacolo, nero anch’esso, che finiva attorcigliato dietro alle spalle. Aspettavano assieme, la piccola gli sorrideva, non lo vdeva spaventoso, non so come facesse, credo che volessero proprio venire da me. Poi sono arrivati loro....»Attien scoppiò in un pianto sommesso che scuoteva tutto il corpo della piccola abbandonata tra le sue braccia.
«Pericoloso o meno che fosse, i tuoi squali se lo sono mangiato, Regina! Hanno fatto come avete deciso qui dentro, tutti voi!»
Yavalha sentiva che quelle lacrime affondavano come pugnali nel suo cuore: ciò che le avrebbe detto di lì a poco era di una crudeltà inammissibile. Inammissibile, se non fosse stata necessaria.
«C’era tanto sangue, non si vedeva più niente...Quando siamo accorse io e mia figlia, la piccina era scomparsa. Fummo terrorizzate che i tuoi squali avessero mangiato anche lei! I tuoi squali, Yavalha!»
«Non puoi farmene una colpa, capisco il tuo dolore ma gli squali sono una precauzione necessaria. Li abbiamo addestrati a lungo perchè sapessero riconoscere il Popolo del Mare dai Codaspaccata. Non mi fido di loro, lo sai, e voglio essere sicura che non danneggino il mio mondo più di quanto hanno già fatto»
«E’un’ipotesi, non è certo, e per un’ipotesi credete sia giusto uccidere! E se i Codaspaccata non c’entrassero niente con la Macchia? Dovremmo ucciderli solo perchè li troviamo ripugnanti?» replicò Attien.
I consiglieri si guardarono interrogativi, qualcuno abbassò lo sguardo.
«Proprio questo voleva capire anche tua figlia Edriel quando è partita sei anni fa: se c’era o non c’era una ragione per aborrirli» ribadì la regina.
«Sì, è incredibile che sia tornata assieme ad un Codaspaccata. E la sua bambina ha la coda spaccata esattamente come quell’alieno! E’assurdo, lo so, ma avevano tutta l’aria di essere una piccola famigliola felice»
Un mormorio di disappunto si levò unanime da quell’assemblea.
«E’ successo tutto così rapidamente. Edriel è subito corsa a soccorrere il Codaspaccata avvolto in una nuvola di sangue e portandolo in superficie mi ha supplicato di cercare la sua figlioletta e di occuparmene fino al momento in cui non fosse tornata. Ero disperata, credevo di averle perse per sempre entrambe, poi il mio sguardo afferrò una piccola sagoma lontana che nuotava veloce verso la Macchia. In un istante vi scomparve in mezzo. Per due lunghi giorni l’ho cercata in quel posto infernale. Ora sono qui e vi supplico: aiutatemi! Non potete chiedermi di abbandonarla chissà dove»
«Non lo faremo infatti»
Alle parole della Regina, Attien ebbe un fremito di gioia ed incoraggiata continuò: «Quando si sveglierà non dovrà aver paura di guardarsi intorno circondata da volti ostili ed espressioni disgustate. Dovrà essere trattata come una di noi»
«E così correre il rischio di generare altri ibridi dalle forme e dalle caratteristiche impensabili? Ibridi che sentiranno il richiamo delle proprie origini e vorranno ricongiungersi ai Codaspaccata. Io non lo voglio. Non puoi chiedermi di aiutarti in questo»
 «Non capisco...non...non potrà andare a scuola, avere degli amici?» biascicò Attien impallidita.
«Potrà andare a scuola, ma non so se potrà mai avere degli amici.»
«Ma è ingiusto, è crudele! Regina, voi che siete misericordiosa, voi non farete nulla per aiutarla?»
«Io non voglio che sia considerata una di noi, lo capisci o no?»
«Volete dirmi che vivrà da infelice fino a quando sua madre non tornerà a prendersela?»
«No»
Attien ricominciò a sperare: «Nel...nel senso che farete qualcosa per non farla sentire diversa?»
 Yavalha scosse il capo.
«Nel senso che forse Edriel non riuscirà a tornare?» domandò Attien consumata in  quell’andirivieni  di illusioni e delusioni.
«Nel senso che non tornerà»
«Non potete dire questo Regina, non potete essere sicura che sia morta. Io invece lo spero, anzi dentro di me ne sono certa: Edriel è viva e farà di tutto per riabbracciare la sua piccina»
«Lo spero che sia ancora viva»
«E allora? Non tenetemi sulle spine, quale forza terrebbe una madre lontana dalla sua creatura?»
Yavalha non aveva intenzione di torturare quell’infelice più del dovuto ma ciò che stava per dirle le costava uno sforzo immenso.
 «Quale forza mi chiedi, Attien?» le disse guardandola negli occhi con pietà infinita «La mia»
«Che...che volete dire?»
«Che sua madre non potrà venire a riprendersela perchè gli squali verranno allenati a riconoscerla e allontanarla. In tutti i modi.»
La vecchia sirena singhiozzava e le sue parole uscirono come un lamento sommesso:« Non potrà raggiungerci... mai più?»
«No, Attien, mi dispiace. Sta a dire che nessuna famigliola felice dovrà mai più venire in visita alla nonna. Sta a dire che è meglio che la piccola dimentichi il suo passato alla svelta, l’aiuterà senz’altro la brutta storia che ha appena trascorso ed anche tu l’aiuterai. I piccoli dimenticano in fretta»
Quelle parole inchiodarono Attien fino a privarla di ogni forza.
Il corpicino non sorretto della piccola scivolò allora dalle sue braccia e fluttuò per un istante prima che la nonna lo riprendesse.
Sembrava morta. Per un solo orribile momento un pensiero atroce sfiorò la mente di Attien: se fosse morta davvero, per quella piccola, sarebbe stato meglio.

Erano le tre di notte.

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