IL POSTO VUOTO
Cecilia aveva
la testa piena di bella musica e di brutti pensieri. Sedeva su una poltroncina
del pullmann accanto al suo zainetto. Aveva sbirciato dietro, davanti e di
lato: nessuno, proprio nessuno, si trovava senza compagnia. Lei invece, nella
poltrona a fianco, aveva solo quel suo zainetto arancione, muto e immobile.
Poteva benissimo sembrare un oggetto appoggiato per occupare il posto di un compagno
ma, mentre il paesaggio sfilava vuoto sotto il suo sguardo, quel compagno non
sarebbe mai arrivato. Qualche sforzo, un paio di cuffiette e forse le sarebbe
passato. Ma quella brutta stretta che sentiva al centro del petto era una nota
terribilmente stonata in quell’atmosfera festosa da cui avrebbe dovuto sentirsi
circondata: era alla partenza per una settimana verde con la sua scuola, non
stava andando al patibolo! Il guaio era che l’atmosfera festosa c’era, eccome:
la circondava e da ogni direzione, nelle risate, nell’allegro parlottio, nelle
canzoni più o meno sguaiate che le giungevano da ogni lato, ma lei, in quella
poltrona solitaria, si sentiva come in un’isola in mezzo al mare. Le pareva di
essere coi piedi sulla sabbia a scrutare il gran fermento dei pesci sotto il
pelo dell’acqua, eccitati per la magnifica festa sottomarina che avrebbe dovuto
tenersi di lì a poco e con la quale non avrebbe mai potuto avere a che fare. Ammesso
di non farsi crescere prima o poi un bel paio di branchie.
Chi avrebbe
potuto sentirsi a quel modo? Sfogliò con la mente un po’ dei suoi bei libri di
fantasy che divorava la sera prima di dormire. Ma la figura che più la consolò
alla fine fu Cenerentola, proprio la Cenerentola delle fiabe per bambini, di
quando lei era bambina. La Cenerentola disprezzata, denigrata, incompresa con
tutta quella sua bellezza sfolgorante apprezzata proprio da nessuno. Forse anche
lei, da qualche parte, dentro o fuori, aveva una qualche bellezza. Bellezza
invisibile per il momento a tutto un intero pullmann. Sorellastre, agghindate per la vacanza, tutte allegre e ridanciane
da dar fastidio. Si sentiva, esattamente come quando, alla vigilia del ballo al
castello, la poverina piangeva, credendo che una cosa così bella non l’avrebbe
mai potuta riguardare, lei che era coperta di stracci ed aveva solo il gatto a
farle compagnia.
A pensarci
bene si sentiva anche messa peggio perché doveva accontentarsi di uno zainetto
che nemmeno avrebbe mai fatto le fusa.
Una gran sfigata insomma, così sfigata da dubitare che i suoi compagni
non si sbagliassero poi di molto ad accennare a lei con quell’orribile termine.
Ci sarebbe mai stata una zucca nel suo futuro, pronta a trasformarsi in
carrozza e a portarla verso un castello meraviglioso in un imprecisato regno di
felicità?
Certo era che
lo zainetto non si sarebbe mai trasformato per l’occasione in cocchiere e la
meta, verso la quale stava correndo a cento all’ora su quell’autostrada, mai
sarebbe stata un castello nel quale entrare acclamata da tutti, ma un
albergotto della Val Pusteria, dove contare i minuti che l’avrebbero separata
dalla partenza. Dove, nel frattempo, avrebbe strisciato come un lombrico in una
sala da ballo nel terrore di venire calpestato.
In breve: una
settimana di sopportazione, d’imbarazzo, di sofferenza da sperare con tutta l’anima
di beccarsi un’influenza e farsi recuperare al più presto dai genitori.
Ma perché, si
domandava, perché si era fatta convincere dalla mamma che quella era una buona
occasione per stringere rapporti migliori? L’unica stretta che in quel momento
funzionava era quella attorno al suo collo, tanto si sentiva mancare il respiro
dal disagio che la tormentava.
Perché non aveva approfittato di quella sua
magnifica scuola praticamente vuota, visto che quasi tutti gli alunni erano
migrati in montagna? Perché non era restata a casa sua a leggere le fiabe
alla sorellina di quattro anni? Gliele
leggeva volentieri perché, in fondo, piacevano
anche a lei, la facevano sognare. Per certi versi sapeva di essere ancora
molto bambina e il mondo della fantasia se lo teneva ben stretto. Guai a portarglielo
via. Alle volte la realtà le pareva troppo arida, la sua immaginazione invece
aveva ali grandi e forti per volare ovunque.
«Scusa, le fai
un po’di spazio? Si sente poco bene”
Artusi, la professoressa d’inglese, stava
accompagnando una ragazzina della sua classe in preda ad un certo malessere da
autobus, proprio verso il posto occupato dal suo zainetto. Matilde non aveva
nessunissima voglia di sedersi accanto a lei, Cecilia glielo lesse chiaro in
viso e il suo volto sofferente in quel momento le sembrò dovuto non solo al mal
di macchina. E come avrebbe potuto essere diversamente viste le liti furibonde
che c’erano già state tra di loro a proposito di almeno un milione di cose?
Purtroppo per entrambe, quello era l’unico posto davanti disponibile e a
Matilde non restava altra alternativa che riempire il suo sacchettino per il
vomito proprio in compagnia di Cecilia con la quale avrebbe dovuto condividere
conati e malumore.
Nel posto
sbagliato e con la persona sbagliata. Ma perché diavolo si era messa davanti,
si domandò Cecilia, lei che non aveva mai sofferto di mal di macchina? Avrebbe
voluto dire all’insegnante che poteva anche spostarsi, ma per guadagnarci cosa
poi? Nel caso avesse proposto un cambio di posto, ci sarebbero stati
sicuramente altri sguardi seccati ad attenderla, tanto valeva non scomodarsi.
Tutto questo
lo pensò in una frazione di secondo.
«Sì sì certo,
è libero” disse senza batter ciglio, spostando prontamente il suo zainetto
sulle ginocchia. Certo che era libero, occupato da chi se no? Dallo zainetto,
poverino? Perché aveva detto una cosa così stupidamente ovvia non lo sapeva
neanche lei. Non sapeva dire che cose stupide in quei casi, ma ciò che meno
riusciva a perdonarsi era quel mezzo sorriso con il quale era riuscita a
tradire il suo reale stato d’animo.
E la sua isola ora era
ancora più stretta.
Il viaggio
proseguì perché il tempo comunque passa e la fine delle disgrazie arriva
sempre. Ma fu atroce.
Venne anche a
lei qualcosa di molto simile al mal d’auto, anche se ciò non si era mai
verificato in tutta la sua vita. Si era fatta persino dare una pastiglia. Mise
i piedi a terra che non stava neanche in piedi, poi l’aria frizzantina della
montagna le riempì il petto e riuscì a trascorrere almeno dieci secondi di
serenità lanciando uno sguardo veloce alle montagne svettanti nel cielo
azzurro.
Fu il tempo
esatto che le ci volle per andare dall’autobus all’entrata dell’albergo, dove
realizzò con orrore che si sarebbe dovuto decidere lì per lì per le camere.
«Ragazzi, non
voglio che s’inizi a litigare per i posti letto. Le camere sono da due,
qualcuna da tre, e io ho già sistemato tutto mentre eravamo in autobus. Ho
guardato com’eravate seduti e sulla base di questo ho fatto l’elenco. Vi
avverto: potete solo ascoltare, prendere le valigie e salire su per quelle
scale»
Artusi, la
prof d’inglese, era grandiosa quando decideva che nessuno e per nessuna ragione
avrebbe dovuto fiatare e così avvenne.
Letto l’elenco, ognuno si avviò verso la sua camera senza batter ciglio.
Probabilmente
il sistema aveva accontentato i più che, seduti vicini per propria volontà, ora
si trovavano di buon grado a condividere la stessa camera. Ma Cecilia non aveva
scelto che il suo zainetto come compagno e Matilde era stata spinta accanto a
lei più da vomito che da amicizia. Così, nel momento esatto in cui venne
decretato che loro due e solo loro due avrebbero condiviso la numero ventinove,
rivide lo stesso sguardo sofferente della compagna quando in autobus si era
seduta accanto a lei tutta pallida e ansimante. Ora ansimavano in due ma
entrambe cercavano di dissimulare: Matilde guardava i quadri appesi alla
parete, Cecilia rovistava senza scopo nello zainetto alla ricerca di un
fazzoletto che non le serviva. Aprendo e chiudendo cerniere, Cecilia lanciava fugaci
sguardi in direzione di tre delle sue compagne, quelle vicino a cui Matilde si
era accomodata all’inizio del viaggio. Sedute negli ultimi quattro posti in
fondo all’autobus, avrebbero avuto tutte le buone intenzioni di ridere come
matte per l’intero viaggio, magari sparlando di questa o quella ed in quelle
conversazioni, poteva starne certa, il posto per lei era assicurato. E un posto
d’onore probabilmente. Poi c’era stato il problema del vomito ed ora, pur
soddisfatte della loro sistemazione tutte e tre nella stessa stanza, cercavano
con lo sguardo la quarta socia colpita da sciagura.
Ma il verdetto
era intoccabile e le due infelici poterono solo salire le scale verso quella
camera numero ventinove che le attendeva, certa come la morte, alla fine di un
corridoio interminabile quanto il silenzio che le accompagnò.
LA DOCCIA
Matilde aprì
la porta: la camera tutta linda e infiocchettata alla tirolese, completa di
orsetto sulla cassapanca, avrebbe messo di buon umore chiunque. A parte chi
temeva sinceramente di dover passare lì dentro la peggior settimana della
propria vita.
Anche i
piumini tutti gonfi e ben sprimacciati sarebbero stati in altra situazione una tentazione senza limiti per entrambe. Nessuna ragazza di tredici anni
infatti avrebbe rinunciato ad un bel tuffo sul materasso con tanto di rimbalzi,
stiracchiatine e rotoloni. Probabilmente era quello che stava accadendo ovunque
in quell’albergo preso d’assalto da un’intera scuola media.
Cecilia e
Matilde, invece, si erano sedute in totale mutismo sui rispettivi letti a disfare
le valigie.
Le loro spalle
erano girate in modo perfettamente simmetrico per mai e poi mai rischiare di incrociarsi
con lo sguardo. Quanto avrebbe potuto durare quel silenzio? In fondo, senza
parlare, si stavano intendendo benissimo: nessuna lite per la scelta del letto,
né dell’armadio, né della sedia sulla quale appoggiare i vestiti. Proprio come
due grandi amiche a cui basta guardarsi per intendersi. Ma a loro riusciva di
fare anche meglio: per intendersi, nemmeno
di guardarsi avevano bisogno.
Poi, in quel
silenzio tombale, il rumore della maniglia della porta fece ad entrambe, per il
tempo di un solo istante, un autentico effetto panico.
«Matilde, ti
abbiamo trovata finalmente!”
Annalisa,
Raffaella e Fiorenza: era arrivato il soccorso al completo. Non ci avevano
messo molto a disfare le valigie evidentemente e, dal modo in cui riprendevano
fiato, sembrava avessero già fatto almeno dieci giri dell’albergo per
individuare al più presto la stanza dell’amica sventurata.
Si sedettero
sul letto dell’infelice e in un attimo, rotolandosi tra cuscino e piumone,
riuscirono a capovolgere il suo umore. Parlavano di un po’di tutto con entusiasmo
senza fine: programmi, gite, attività, di quanto erano fantastiche la sala da
pranzo, la stanza del ping-pong e soprattutto quella speciale delle animazioni
serali. Dicevano che era grandissima, che ci stava l’intera scuola, persino coi
faretti sul soffitto come in una discoteca, e parlavano dei divanetti, delle tende
color carta da zucchero, dei tavolini e dei fiori gialli sui tavolini. Non
avevano perso tempo davvero: sembrava che tutto quell’albergo per loro non
avesse più segreti. Lei invece era riuscita ad esplorare al massimo il cassetto
del comodino. Che schifo.
Parlavano ad
alta voce, ridendo e scherzando, come se Cecilia fosse perfettamente invisibile.
Che lo fosse stata per davvero?
Il dubbio
scomparve quando si accorse della propria innegabile presenza attraverso certe
occhiate veloci che non le piacquero per nulla e in alcune brevi frasi
scambiate sotto il piumone, giusto il tempo per non soffocare tra sghignazzi e
risatine.
Andò in bagno.
Avrebbe trovato sicuramente qualcosa di sensato da fare: una pisciatina ad
esempio, anche se non le occorreva poi molto. Poi si lavò le mani, con calma, e
con calma se le asciugò. Incrociò per disgrazia il suo volto allo specchio, si
fissò negli occhi ripetendosi all’infinito «Scema cretina deficiente scema cretina...”
Come aveva
potuto cacciarsi in un simile pasticcio? D’ora in poi avrebbe dovuto ascoltare
solo se stessa. Che i suoi genitori volessero il suo bene era certo, ma che davvero
lo conoscessero non lo era altrettanto. Vacanza... chissà quante volte avevano
già detto: Cecilia è in vacanza! Maledetta quella volta che li aveva ascoltati.
In quel bagno
non c’era né un libro, né un giornalino. Nemmeno una finestra c’era, per poter
guardare fuori e immaginare di fuggire su una di quelle meravigliose cime che
l’avevano accolta all’uscita dall’autobus, spalancandole il cuore in un fugace
attimo di gioia.
Si ritrovò
seduta sul coperchio del water a fissare la tendina della doccia.
La doccia.
Quella sì che sarebbe stata un’idea, ma gli asciugamani erano restati fuori,
sul tavolo, e per prenderli avrebbe comunque dovuto uscire. Era questo il
problema. Perché uscire sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
Chissà quante
ne stavano dicendo sul suo conto, quanti bei musi e musetti per prenderla in giro,
ora che le aveva lasciate indisturbate ad accanirsi su di lei. Che facessero
con comodo, in fondo quella ragazza che stava in bagno a fissare la tendina
della doccia non c’entrava niente con la Cecilia che stava dall’altra parte di
quella porta. Creatura nata dalle loro parole, caricatura dipinta con i loro
colori, uscita dalle loro mani, con la Cecilia vera aveva sicuramente poco a
che fare.
Se questo
accadeva, però, era anche un po’per colpa sua, era lei che se ne restava
barricata là dentro, che non riusciva a spalancare d’un botto la porta,
dicendo: ecco, sono qua, se avete
qualcosa da dire, ditemelo in faccia, non ho paura.
Una volta era
più coraggiosa, una volta diceva le cose come le pensava, perché adesso non era
più così? Avevano vinto loro, i suoi compagni, deridendola o peggio ancora:
isolandola. Sola, sulla poltroncina davanti dell’autobus, con nient’altro che
uno zainetto a fianco. Sola, seduta sul cesso, in quel bagno senza finestre,
aspettando che finisse la settimana. Avrebbe potuto nutrirsi di sapone, carta
igienica e l’acqua non sarebbe stata un problema.
Era tempo di
finirla, invece, e la porta andava aperta. Subito.
Ma venne
distratta dal silenzio che sembrava esserci al di là di questa.
Che a quelle
quattro fosse scoppiata la gola dal troppo ridere? Tirò di più le orecchie, una
addirittura l’appoggiò alla porta del bagno. Silenzio assoluto.
L’aprì e si
ritrovò davanti la camera vuota.
Forse si erano
chiuse in armadio. Non poteva andare per davvero ad aprirlo, non poteva ridursi
a questo.
Vuoto.
Mossa giusta
per sentirsi più scema. Si augurò con tutta l’anima che ad assistere alla
simpatica scenetta ci fosse stata soltanto lei. Sai che bello se fossero state
sotto il letto ad osservarla, col diaframma spappolato dal gran ridere? Non poteva
farlo, non poteva chinarsi anche a guardare anche lì sotto.
Sotto il letto
non c’era nessuno.
Provò sul
momento un gran senso di liberazione e la tentazione immediata fu di tuffarsi
sul materasso, lanciare il cuscino e gridare a squarciagola: che bello! Sono in montagna, sono in vacanza!
Libera, libera!
Dopo
quell’attimo di incoscienza si sentì invece solo libera di piangere.
Tra le lacrime,
si alzò per chiudersi a chiave. Non avrebbe sopportato di farsi vedere in
quello stato.
Ma la chiave,
quella che era sicurissima di aver visto attaccata alla porta dall’interno, non
c’era più.
Ecco,
l’avevano chiusa dentro. Erano capaci di farlo, le bullette disgraziate! Lanciò
un pensiero velocissimo alla finestra evidentemente troppo alta per tentare da
lì una fuga, poi si attaccò alla maniglia con tutte le sue forze e tirò a sé
violentemente, quasi con disperazione.
La porta si
aprì di botto e lei si trovò schiacciata contro il muro. Si era fatta persino
una dannatissima botta al gomito per la quale riuscì a non emettere nemmeno il
più piccolo gemito.
«Cercavi la
chiave?»
Era Matilde,
assieme alle altre, che, con la chiave in mano, la guardava un po’stupita ma incredibilmente
seria. Era riuscita a non sbellicarsi dalle risate. Probabilmente con uno
sforzo sovrumano.
«Facciamo
così, se abbiamo bisogno della chiave, la mettiamo sempre sotto il tappeto,
così sappiamo dove trovarla» disse Matilde con una serenità allarmante.
Cecilia stava
per dirle qualcosa ma si trattenne. Grazie pensò, grazie Matilde per la più bella mezzoretta in bagno di tutta la mia
vita. Grazie di non avermi ancora
chiusa in camera e soprattutto di avermi risparmiato di sentirmi ridicola
mentre mi spiaccicavo dietro la porta.
A pensarci
bene forse di questo avrebbe dovuto sentirsi davvero riconoscente. Erano lì
tutte e quattro, avevano assistito di certo alla gustosa scenetta e invece di
crepare dalle risate le stavano rivolgendo la parola in modo civile, come fosse
stata una come tutte. Un flash inatteso: forse le cose potevano anche andare
diversamente. Forse quella vacanza sarebbe servita davvero per migliorare i
rapporti, proprio come avevano detto i suoi genitori.
«Grazie» le
uscì alla fine dalla bocca.
«Siamo andate
a farci un giretto, ti avremmo chiamato, ma non volevamo disturbarti mentre eri
in bagno» fece Matilde candida, come se stesse parlando ad un’amica. Che
l’avesse perdonata di essersi trovata a vomitare accanto a lei in pullmann?
«Sì, mi sono
fatta la doccia» puntualizzò Cecilia.
Lei che odiava le bugie, che odiava gli altri
quando le dicevano, quando solo cercavano di mutare la realtà a proprio
vantaggio, quando cambiavano le carte in tavola e si servivano della buona fede
di chi non cercava malizia e sotterfugi per vincere la partita, lei, proprio
lei, aveva ceduto ad una bugia così cretina. Cretina e inutile perché non
serviva a nessuno, solo ad evitare una spiegazione dettagliata di quanto bene
si stava a fissare la tendina della doccia. Una spiegazione che nessuno le
aveva nemmeno chiesto. Perché mai aveva sentito il bisogno di giustificarsi con
tanta sollecitudine, allora?
Matilde entrò
in camera e, dopo aver salutato le amichette, chiuse la porta dicendo: «Adesso,
se ti sta bene, la doccia me la faccio io, devi entrare ancora?»
«No no, fai
pure, grazie»
Perfetto,
assieme a quella sua fastidiosa, stupida bugia, Cecilia ora avrebbe dovuto
tenersi anche puzza e sudore. Aveva proprio la sensazione di sentirsi sporca,
dentro e fuori.
Matilde si
fermò un istante davanti agli asciugamani sul tavolino. Impilati uno
sull’altro, belli, bianchi, asciutti e profumati, apparivano tutti
perfettamente immacolati dal primo all’ultimo. Cecilia si sentì morire.
Matilde divise
il pacco di asciugamani, maneggiandoli con cura, e, dopo averli contati, ne
prese una metà, lasciò l’altra sul tavolo, non disse una parola e se ne andò in
bagno.
Perché aveva
voluto risparmiarla ancora una volta?
Quando Matilde
uscì dal bagno, andò a cercarsi il phon e iniziò ad asciugarsi i capelli. In
silenzio. Silenzio pericolosissimo che forse nascondeva i nuovi sviluppi su
quella storia degli asciugamani che aveva aggrovigliato lo stomaco di Cecilia
per tutto il tempo che era restata ad ascoltare il rumore della sua
doccia. Sotto la doccia, infatti, se non
si canta, si pensa, va da sé che Matilde avrebbe potuto anche riflettere meglio
su quel suo insolito lavaggio senza asciugamani.
«Sai una
cosa?» disse Matilde con il rumore del phon che rendeva appena udibili le sue
parole.
«Sì?» rispose
Cecilia, mal celando la propria ansia per quella ‘cosa’ che doveva sapere e che
tra un secondo l’avrebbe fatta sentire la regina delle cretine.
«Questa sera...amo...eme...so...volo»
Il rumore del phon non le aveva fatto capire
nulla e le bastarono poche frazioni di istanti per riempire di tutto il peggio
quelle mezze parole che i suoi neuroni stavano cercando febbrilmente di decifrare....eme stava sicuramente per sceme,
bugie sceme e aveva ragione,...volo,
la loro possibile amicizia aveva preso il volo, amo...amo...
«Mi hai
sentito?» fece Matilde.
«Sì...
abbastanza» rispose Cecilia.
Matilde non
spense il phon, ma parlò più ad alta voce.
«Questa sera
ceniamo insieme allo stesso tavolo. Ce l’ha detto la prof quando siamo uscite.
Tutte insieme al tavolo otto. E’ un tavolo da cinque!»
I neuroni di
Cecilia a quel punto tornarono al lavoro in modo ancor più concitato: aveva
capito giusto o quel maledetto phon le aveva fatto arrivare al cervello parole
che nulla avevano a che fare con la realtà?
«Mi hai
sentito?» Matilde ripeté, serafica. Accanto a lei in autobus, addirittura nella
sua stanza ed ora pure al tavolo e non sembrava per nulla indispettita. Strano.
«Hi Cecilia!
Sono già le sette e venti. Ti ricordi? Ci hanno raccomandato di arrivare
puntuali per le sette e mezza, muoviamoci!»
Era la prima
volta che la chiamava per nome.
ALLO STESSO TAVOLO
Cenò effettivamente
al tavolo con le quattro compari che non dimostrarono affatto la solita
vocazione a tormentarla. Di questo fu loro profondamente grata, tanto che riuscì
persino a perdonare loro la consueta inconcludenza, superficialità, vuotezza,
banalità, gusto della chiacchiera, del pettegolezzo e perfino i commenti
sull’ultima puntata del Grande Fratello. Dopo un po’ il loro cianciare iniziò a
far parte dei rumori di fondo della stanza, mescolandosi al tintinnio confuso
di forchette e coltelli. Quelle loro parole inutili giungevano a lei sempre più
soporifere e si allontanavano dalla sua attenzione senza che, pur con ripetuti
sforzi di volontà, riuscisse più a riacciuffarle. No, con quel gruppo di
ochette non aveva proprio nulla con cui spartire.
Furono, come
al solito, le sue stesse riflessioni a tenerle compagnia. Si ripeteva che, per
il momento, doveva accontentarsi, che quel che le era capitato era già un
successo insperato. E poi, avrebbe davvero mai trovato qualcuno con cui
esplorare qualcosa di più appassionante dell’ultimo catalogo di moda-primavera?
Magari parlare di un bel libro, condividere la passione per la natura o
confessare reciprocamente le mille ansie, paure, inquietudini che stavano
dentro i loro animi in quegli anni in cui imbarazzi e timori sembravano sempre
pronti a spuntare da ogni dove?
Quelle quattro
invece erano solo capaci di ridere.
E l’avrebbe
fatto volentieri anche lei come tutte le ragazze della sua età, se non fosse
stato per i motivi deprimenti che suscitavano in loro tanto buon umore. Sedere
di questa, occhiali di quell’altro, reggiseno di marca o peggio ancora: di
quanto brave fossero state a prendere per il naso la scemotta di turno. Almeno
la scemotta per quel turno non era lei, una consolazione da non sottovalutare.
Stava al tavolo di chi prendeva in giro, adesso. Almeno poteva sentirsi al
sicuro.
Fatto sta che
a quel tavolo avrebbe preferito di gran lunga non esserci.
Ma il tormento
che le dava stare al loro gioco, magari anche solo con un mezzo sorrisino accondiscendente
e qualche battutina qua e là, tanto per non stare sempre zitta, iniziava a
diventare insopportabile. Respirava la stessa puzza di quella doccia non fatta
che le aveva lasciato addosso una sporcizia triste. Un fetore sgradevole di debolezza
e falsità che infastidiva lei stessa per prima.
Ma perché il
secondo non arrivava? Almeno avrebbe fatto qualcosa di buono riempiendosi la
pancia.
«Parliamo di
cose serie adesso» fece ad un tratto Annalisa.
Cecilia si
scosse: quelle cose ‘serie’ di cui avrebbero finalmente parlato le misero
addosso una vaga speranza.
«Vedrai che
idea, Cecilia, ti piacerà da pazzi» continuò Matilde che sembrava tutta
miracolosamente attratta dalle sue opinioni «Lo sai, vero, che stasera
vorrebbero mandarci tutte a nanna dopo le nove?»
Cecilia restò
di sasso. Poi si sentì avvampare dalla rabbia.
«Cosa? Ma
siete sicure? E il Benvenuto se non stasera, quando? O facciamo il Benvenuto il
giorno che dobbiamo partire?»
Le quattro
scoppiarono a ridere. Sul momento Cecilia si sorprese perché di ridere non ne
aveva proprio nessuna intenzione ma la battuta, uscita senza alcun intento umoristico,
forse era riuscita ad essere divertente per davvero.
Aspettò che si
chetassero, cercando di unirsi alle loro risa , poi continuò «Non capisco, non
capisco! I prof avevano detto che sarebbe stata una serata indimenticabile, ma
quanto possono essere bugiardi, accidenti, solo per farci star buoni! Bastava
che ce la meritassimo e che facessimo i bravi in autobus. Abbiamo fatto
qualcosa che non andava? Abbiamo sputacchiato dai finestrini?»
Le quattro
avevano assistito alla sua esplosione d’ira immobili come statue. Quando parlò
di sputacchi, però, sbottarono in una risata tale che Cecilia fu costretta a
bloccare quel suo fiume in piena. Riprese subito dopo imperterrita. Quando
vedeva ingiustizie, infatti, non la fermava più nessuno «E poi avevano detto
che ci avrebbero dato il programma per tutte le cinque serate subito, appena
arrivati, ma io non l’ho visto! Perché devo venirlo a sapere da voi? Perché non
ce l’hanno dato, perché?»
«E infatti ce
lo daranno domani, l’hanno detto prima, mentre eri in bagno» aggiunse Fiorenza,
lottando per ritornare seria.
Ma quante cose si era persa con quella stupida
storia del bagno?
«E intanto la
prima serata va così: a nanna dopo le nove! Non è mica giusto, però» riprese
Annalisa parlando all’improvviso con tutt’altro tono e aggiunse solenne «Promessa
fatta va mantenuta, vero Cecilia?»
«Se uno si è
preso l’impegno, deve mantenerlo, lo dici sempre, no?» ribadì Matilde con
un’enfasi che suonò a Cecilia un tantino eccessiva. Ma non ci fece molto caso,
abbacchiata com’era dalla notizia: a parte le insistenze dei genitori, erano
proprio quelle serate e soprattutto quella prima serata tanto decantata che le
avevano solleticato la curiosità e fatto risolvere per il sì. Se i prof
l’avevano detto solo per farli star buoni, erano proprio degli imbroglioni! Promessa
fatta va mantenuta. Avevano ragione le sue compagne, anche se quel bel
principio non gliel’aveva mai visto mettere in pratica una sola volta da quando
le conosceva. Al contrario di lei che, almeno fino ad un po’di tempo fa, si
sarebbe fatta squartare piuttosto di venir meno ad un impegno preso.
«Ma come?»
continuò Cecilia risentita «ci avevano parlato tanto di questa famosa festa,
giochi, musica, balli, sorprese e poi...così...possibile? Ma che scuse hanno
avuto il coraggio di tirar fuori?»
« Ah, l’Artusi,
sai come fa lei, l’ha annunciato e basta»
«E nessuno ha
preteso da lei dei particolari, come puoi ben immaginare» aggiunse Annalisa al
commento di Fiorenza.
«Ma noi non ci
facciamo mandare a letto dopo le nove, vero Cecilia?» ribadì Raffaella.
«No certo, c’è
qualcosa in programma?» rispose secca Cecilia.
Le quattro si
guardarono senza capire.
«Il programma
vostro naturalmente, non quello che non ci hanno dato! Perché mi guardate così?
Sbaglio o l’intenzione era di darci il Benvenuto da sole?»
Un istante di
esitazione, poi ancora una gran risata.
«Ti avevo
detto che era simpatica!» sussurrò Matilde all’orecchio di Raffaella. Cecilia
sentì benissimo e, a parte il fatto che in quel momento ebbe un po’
l’impressione di sentirsi un articolo da supermercato, un acquisto insomma,
buono per sua fortuna, ciò che non riusciva assolutamente a mettere a fuoco era
il momento esatto in cui era riuscita a guadagnarsi tutta quella gran simpatia
dalla sua compagna di stanza.
«Certo che c’è
qualcosa in programma!» continuò Fiorenza con gli occhi che le brillavano
«Stasera si balla!»
«Non vuoi
ballare?» le chiese Matilde vedendola sorpresa. «Non ti piace?»
«Sì, sì, mi
piace tantissimo» Cecilia per un attimo si era sentita come estranea a quella
scena in cui si stava muovendo con tanta disinvoltura e le parve di vedere le cose
dal di fuori: ma cosa stava succedendo? Era come se Cenerentola stesse
ricevendo l’invito al ballo proprio dalle mani delle sue sorellastre. C’era
qualcosa di strampalato in una storia così. Avrebbe dovuto preoccuparsi? Iniziò
a provare tensione per qualcosa d’imprecisato senza riuscire a mettere a fuoco
un’idea che fosse degna di tale nome.
«Se ti piace
tantissimo perché fai quella faccia?» intervenne Raffaella che aveva colto quel
suo attimo d’incertezza.
«Scusate, ma
non vorrete mica uscire dall’albergo?» domandò Cecilia cercando di dare forma
al suo improvviso moto d’angoscia.
«Ma no, di
cosa ti preoccupi!» ricevette in coro.
«Siamo
d’accordo anche con loro...» e Annalisa indicò con un segno dell’indice appena
percettibile il tavolo cinque, in fondo alla sala.
«Chi?» disse
Cecilia che non poteva credere davvero che stesse indicando proprio quello dei
ragazzi.
«E dai, vuoi
che balliamo solo tra femmine come alle elementari?»
«Ma loro...che
hanno detto?» Cecilia era incredula. Che Silvio venisse a ballare proprio dove
ci stava lei, le parve un’idea del tutto stravagante e aggiunse «Ma sa che ci sono
io?»
«Ma sì, sì che
lo sa, ma sei tanto cambiata dall’anno scorso, secondo me gli sei anche simpatica»
«Io?»
Dopo tutti i
diverbi che c’erano stati tra loro? E poi era davvero‘tanto cambiata’? Tutti
sembravano condividere quell’osservazione con l’unico risultato di aumentare la
sua inspiegabile ansia. Eppure ciò che doveva importarle maggiormente era che
adesso tutti la volevano: poteva anche riuscire a rallegrarsi, no?
Quando il
cameriere venne a ritirare il piatto, Cecilia vide con sorpresa di averlo
svuotato. Il bello era che se qualcuno le avesse chiesto cosa avesse appena mangiato
avrebbe avuto serie difficoltà a rispondere. Peccato...magari era anche buono.
«Ce l’hai il
cellulare? Portalo, che mettiamo le musiche che hai caricato» fece Fiorenza.
«Non è che
sono molte» rispose Cecilia, mentre con il tovagliolo si puliva la bocca sporca
chissà da cosa. Sapeva che gliene stavano pochissime, il suo non era certo un
cellulare di quelli fighi,
cosa della quale non si era mai curata molto. Fino a quel momento.
«Non ti
preoccupare, abbiamo già tutto»
«Ma in dieci
non ci stiamo in stanza » obbiettò Cecilia.
«E chi ti ha
detto che dobbiamo restare in stanza?»
«Ci siamo
fatte un bel giro dell’albergo e abbiamo trovato un posto lontano dalle stanze,
dove possiamo fare tutto il casino che vogliamo e non ci sentirà nessuno»
«E poi è
divertentissimo, c’è anche la casetta dei Tre Porcellini!»
A Cecilia
parve di vedere d’un colpo il fine e la fine di tutte quelle carinerie: «Ma mi
state prendendo in giro?»
«Che hai?
Calmati, mi sembri quella dell’anno scorso!»
Ecco a cosa
alludevano parlando di quel suo misterioso cambiamento. Ora iniziava ad essere
apprezzata per ciò che non era, buonina e silenziosa, incapace di dar fastidio
e di essere se stessa. Un vero successo.
«Magari, se ti
diciamo che c’è Biancaneve con tutti i nanetti, ti senti ancora più offesa!»
«E della
parete con Cenerentola alta due metri, glielo diciamo o si mette a piangere?»
Da ogni parte
di quel tavolo arrivavano frecciate che la colpivano a tradimento proprio ora
che erano riuscite a farle abbassare lo scudo. Fece per alzarsi e andarsene, ma
la brava Matilde intervenne con tempestività.
«Cecilia, non
prendertela, non volevano offenderti. E’ la pura verità, se non ci vuoi credere
non è colpa nostra»
«Cosa dovrei
credere io? Che andiamo a ballare a Disneyland?»
«Non ci sei
andata molto distante» replicò Raffaella che sembrava divertita per la battuta.
«Certo, con
l’aereo infatti si fa anche presto» Ancora un coro di risate.
Ridevano per
tutto ciò che diceva allora? Da quando era diventata la macchietta della compagnia?
Cercavano un giullare e forse l’avevano trovato. La fantasia non le mancava e
in fondo far ridere gli altri era meglio che farli piangere. O di mettersi a
piangere.
«Bè, invece di
andare in America, ci basterà scendere sotto, al seminterrato, lì c’è il posto
che fa per noi»
«Il kindregate! Hai capito adesso, Ceci ?»
Adesso per
Matilde non era neanche più Cecilia. Era Ceci.
Quel Ceci l’aveva lasciata interdetta, tanto
che quello strano nome che sapeva da tedesco era passato in secondo piano.
«Sì, la sala
dei bambini, dove le mamme lasciano i marmocchietti per farsi i cavoli loro!
Con tanto di casa dei porcellini, nanetti e tutto il resto. Dopo le otto non
c’è più nessuno, ci siamo informate»
«Tutti a letto
i bravi bambini! Ma a noi non ci mandano a letto, no no» fece Raffaella tutta eccitata.
«Vedrai, c’è
la moquette, possiamo anche stare a piedi scalzi.» continuò Fiorenza.
«Ah! Io
pensavo di mettermi il tacco!» commentò Cecilia. Altro successo. Non era poi
difficile conquistare quella platea sempliciotta. A parte non cedere mai alla tentazione
di essere se stessi.
«Ci sono anche
i cuscini da tirarsi addosso, e sapete una cosa? Magari ...insomma... si può
anche stare comodi...» fece Raffaella lanciando un certo mezzo sguardo malizioso
al tavolo dei ragazzi. Seguì una bella pioggia di No!No!No! unanime da tutto il
tavolo.
«Ok ok, ho
capito, ce li tiriamo e basta!» concluse Raffaella.
«Sarà una
serata fantastica! Allora, tutte d’accordo?» concluse Annalisa.
«Sììì»
Nell’allegro coretto c’era anche il sì di Cecilia, ma un po’ pallido rispetto a
quello delle altre. L’impressione era di non sentirsi per nulla al sicuro.
«Facciamo una
promessa però: se qualcuno viene scoperto, non deve tradire gli altri» la voce
di Fiorenza si era fatta grave.
«Ma come? Se
dovessero scoprirci, saremo tutti assieme, no?» intervenne Cecilia.
«Sì, ma solo
una volta che saremo al completo dentro la stanza, abbiamo deciso che sarà
meglio andare uno alla volta per non dar sospetti. Non ci si può muovere in
dieci, credi che la prof d’inglese non se ne accorgerebbe?»
Era vero, quel
cane da guardia dell’Artusi aveva un fiuto speciale per cose del genere, figuriamoci
se non avrebbe scoperto in un lampo quel nutrito gruppo di ribelli in giro per
l’albergo!
«Dalle stanze,
ho calcolato, ci si potrà mettere sì e no cinque minuti» continuò Fiorenza
«ogni cinque minuti esatti, ad iniziare dalle otto e mezza, partirà qualcuno,
così ci ritroveremo nella stanza dei giochi...vediamo un po’...fai tu il
calcolo che sei brava...» disse Fiorenza ad Annalisa.
«Ci troveremo
tutti e dieci al completo esattamente alle nove e quindici»
«Perfetto,
partiremo secondo un ordine prestabilito allora, ognuno dovrà conoscere con
precisione il proprio turno» intervenne determinata Cecilia che iniziava ad
appassionarsi all’impresa. Anche se non si trattava di spendersi per grandi
ideali, avrebbe almeno ripristinato la giustizia riprendendosi quello che era
stato tolto loro in modo iniquo.
«Brava Ceci!
E’esattamente quello che abbiamo pensato di fare» esclamò Annalisa. Adesso era
Ceci anche per Annalisa.
«Avete fatto
lista e foglietti?» domandò Matilde alle amiche.
«Sì, ecco i
foglietti» Raffaella estrasse dalla tasca un pugno di bigliettini. Matilde li
contò, erano dieci come i partecipanti alla festa.
«Ok, i nomi ci
sono tutti. La lista?»
«L’ho fatta
io, eccola» rispose Fiorenza «Allora Ceci, una di noi pesca un nome, quella
persona sarà la prima ad entrare nella stanza dei giochi, poi seguiranno tutti
gli altri a seconda del suo posto nell’elenco. Ci muoveremo ogni cinque minuti,
quindi ognuno dovrà partire ad un’ora precisa che stabiliremo una volta deciso
l’ordine»
«Accidenti che
organizzazione! Ma ve lo siete sognato di notte un piano del genere?»
intervenne Cecilia, accolta puntualmente da altre risate. Anche questo faceva ridere,
ma era proprio tanto divertente? Comunque
fosse, la cosa non le aveva dato alcun fastidio e in quel nuovo ruolo ebbe
l’impressione di non sentirsi poi così a disagio.
«Siamo pronte
per la pesca?» disse Matilde.
«Scusate un
po’, ma... loro... lo sanno?» disse un po’ preoccupata indicando con lo sguardo
il tavolo di Silvio & C «voglio dire: sono d’accordo? Anche se peschiamo
uno di loro, dico...»
«Ma certo, non
ci sono cagasotto, tra di noi, vero Ceci?»
La cosa le
suonò vagamente provocatoria: stava alludendo a lei, forse?
«Va bè, chi
pesca allora?» continuò Cecilia, tagliando bruscamente con i propri tentennamenti.
«Pescate voi.
É meglio perché noi li abbiamo fatti» disse Raffaella rivolta a Matilde e
Cecilia.
«Ha ragione,
così non si rischia di barare, no?» aggiunse Annalisa.
Accidenti, che
discorsi virtuosi! Pensò Cecilia, felicemente sorpresa da tanta lealtà.
«Pesca tu, va
là» propose Matilde. Cecilia si rifiutò di innescare inutili tiraemolla, col
rischio di apparire incerta agli occhi delle altre e andò a colpo sicuro con la
mano sul mucchietto dei bigliettini al centro della tavola.
Fu panico nel
leggere proprio il suo nome nel foglietto. Poi si ripeté che non c’era nessuna
ragione ed anche se ci fosse stata sarebbe stato meglio ignorarla. Non doveva
trapelare nulla del suo sgomento agli occhi di quella compagnia appena conquistata.
Sarebbe scesa
nel seminterrato per prima, avrebbe trovato la stanza in fretta, anche se non
aveva la più pallida idea di dove fosse, probabilmente l’avrebbe fatto in piena
oscurità, poi avrebbe atteso, seduta sulla moquette quei cinque minuti, forse più, forse meno, in compagnia di
Brontolo e di Cenerentola.
In silenzio,
al buio, in un seminterrato deserto. Problemi zero.
PROBLEMI ZERO
Ore otto e
ventisette: tre minuti esatti e Cecilia avrebbe dovuto lasciare la stanza.
«Vado in
bagno» disse Matilde «così poi sono pronta. Tu intanto vai. Otto e trenta come
d’accordo. Spaccate, mi raccomando »
Tre minuti e
Cecilia avrebbe avuto l’onore di far decollare il piano. Soltanto tre minuti
per telefonare ai suoi genitori come aveva loro promesso. Purtroppo quel
turbinare di eventi le aveva fatto scordare la telefonata che sicuramente la
sua famiglia aspettava con ansia. Non poteva lasciarli senza sue notizie proprio
il primo giorno e poi che bello se i genitori, messi in apprensione dal suo
silenzio, avessero voluto contattarla. Come le avevano raccomandato giustamente
le compagne, infatti, non era il caso di accendere luci prima delle nove,
quindi il suo cellulare le sarebbe servito da pila e non avrebbe potuto
spegnerlo. Sai che divertente se avesse suonato mentre lei, al buio e in punta
di piedi, si fosse trovata laggiù. Se, a causa di ciò, l’avessero poi scoperta,
le sue nuove amiche non le avrebbero mai più offerto una seconda possibilità e
lei se ne sarebbe vergognata per tutta la vita. Non c’era via d’uscita, doveva
risolvere la cosa immediatamente.
Grazie al
cielo, Matilde era in bagno e Cecilia approfittò di quei tre minuti per
chiamare a casa, evitando così di farsi vedere dalla compagna. Che fastidio
vederla sbracciarsi per farle capire che
era tardi.
Non passò
inosservato a Cecilia che una semplice telefonata ai genitori riuscisse a farla
sentire così a disagio. Nonostante ciò, si rassegnò anche a parlare a bassa
voce come se stesse facendo qualcosa di disdicevole e con l’occhio sempre fisso
ai minuti che correvano.
«Hai visto che
avevo ragione io?» le aveva detto la mamma al telefono a proposito delle sue
nuove amicizie e ribadì ancora una volta la solita tesi che sarebbe stato proprio
sciocco restare a casa e rinunciare alla
possibilità di stringere in quell’occasione rapporti migliori. Aveva ragione la
mamma, ma ci stava mettendo un tempo infinito per ricordarglielo.
«Ma perché
parli a bassa voce? Stai disturbando qualcuno?» La mamma non la mollava più.
Matilde poteva spalancare la porta del bagno in qualsiasi momento. Cominciò a
sentirsi seccare la gola, proprio come quando si trovava in autobus senza abbonamento
e, pur non essendoci ora nessuna multa in agguato, ebbe la netta impressione
che il prezzo da pagare sarebbe stato molto più alto.
«Ma che hai?»
disse la mamma interrompendo il suo accorato ragionamento sulla necessità di
non chiudersi in sé, di lasciare agli altri una seconda possibilità etc. etc.
« Ti sento un
po’ frettolosa, telefono dopo se vuoi»
«No, no...» si
affrettò a dire Cecilia, temendo guai peggiori.
«Ci sarebbe
qua tua sorella, ti vorrebbe salutare. Anche tuo papà è in coda!» continuò la
mamma accennando ad una risata.
Cecilia,
appoggiata sul lato dell’armadio non visibile dalla porta del bagno, sperava
che quella prospettiva forse l’avrebbe salvata dallo sguardo feroce che Matilde
avrebbe lanciato su di lei di lì a poco. Sentiva la sorellina smaniare per
salutarla e non poté certo rifiutare, così dovette perdere almeno un altro
prezioso minuto per assicurarla che al suo ritorno le avrebbe letto Cenerentola
per almeno tre volte di fila. Poi venne il turno del babbo e ancora quello
della mamma che si era dimenticata di spiegarle dove aveva messo la batteria
della macchina fotografica.
Matilde uscì
dal bagno esattamente alle otto e trentasei. Cecilia, emersa di scatto dal suo
angolino, la guardò con gli occhi sgranati con il cellulare appena infilato
nella tasca.
«Ancora qui?
Ma hai visto l’ora?» Matilde guardò il suo cellulare e continuò allarmata «Dovevi
essere fuori già da dieci minuti!»
Nove per
l’esattezza, pensò Cecilia che ricordava fin troppo bene ognuno di quegli
orribili secondi.
«Guarda che se
inizia il primo a muoversi in ritardo, non so come va a finire!»
«Non ti
preoccupare, il mio orologio lo tengo sempre qualche minuto avanti per non
arrivare tardi a scuola, sarà in anticipo anche il tuo»
«Ma fai
davvero? Vuoi che lo tenga dieci, dico dieci, minuti in anticipo?» In
quell’attimo sembrò a Cecilia che nulla fosse mai cambiato tra di loro e quella
strana serata con le battute scherzose e la festa e i bigliettini, nulla fosse
mai esistito.
«Va bè, non
perdiamo altro tempo» riprese Matilde, come se quella brutta parentesi si fosse
chiusa senza sforzo e, generosamente, avesse voluto riprenderla da quel suo infelice
salto nel passato.
«Adesso
vai...ti ricordi vero? Ultima porta del primo corridoio sulla destra e tieni
spenta la luce fino alle nove, mi raccomando!»
Cecilia si
sentì molto a disagio una volta fuori della porta. Per la figuraccia ma non
solo. Aveva mentito. Ancora una volta. Il suo cellulare non era affatto in
anticipo, l’aveva detto per salvarsi in qualche modo, riuscendo solo a peggiorare
la situazione, che sciocca! Era cambiata, avevano ragione: ora era sciocca e
prima non lo era. Ora mentiva e prima non l’avrebbe mai fatto.
Adesso però
ogni singolo neurone del suo cervello andava messo in azione ad un unico scopo:
trovare quella famigerata stanza del seminterrato che conosceva solo attraverso
le parole di Matilde. Doveva essere una saetta.
Come
pianificato, raggiunse l’ascensore e lo fece correndo a perdifiato come fosse
inseguita da un branco di lupi affamati. Chiamò l’ascensore che naturalmente
dava rosso. Sempre rosso per un tempo infinito: ma quanta gente c’era in
quell’albergo che doveva salire e scendere?
Finalmente vi
entrò e, scendendo dal terzo al secondo piano, temette seriamente che
Raffaella, in perfetto orario per il secondo scaglione incrociasse lei e il suo
perfetto ritardo.
Ed invece le
andò anche peggio e giunta al secondo piano si trovò faccia a faccia con Senigalli,
la professoressa di scienze. All’improvviso la vide comparire dietro gli scorrevoli
dell’ascensore, con la sua solita brutta faccia occhialuta ma tutta tirata a
nuovo come fosse lei ad andare ad una festa. Non l’aveva mai vista conciata così,
chissà dove si stava recando e se c’era qualche bel teutonico ad attenderla
fuori dell’albergo.
Che ce l’avesse
con lei non era una novità, ed aspettandosi, in quei disgraziati secondi che
avrebbero dovuto condividere in quel loculo, un breve ma intenso terzo grado su
dove andasse e cosa facesse, giurò a se stessa di mantenere la calma e che, qualsiasi
cosa fosse accaduto, lei non avrebbe mai tradito nessuno. Ma probabilmente non
c’era nessuna ragione di allarmarsi: l’infiocchettata signorotta aveva
sicuramente pensieri più piacevoli in quel momento che torturare una povera
alunna. Sicuramente era diretta all’uscita perché, una volta messi a nanna i
bambini, era libera di andare dove voleva, la furbetta. Che ingiustizia! Se i
professori avevano promesso cinque serate di animazione, non era giusto che i
ragazzi ne stessero perdendo una senza ricevere alcuna spiegazione. Fu tentata
persino di tirar fuori l’argomento che le bruciava non poco ma poi pensò che
non ne valeva la pena, visto che si stavano arrangiando da sole, e di questo si
sentì più che mai fiera.
«Che fai
Fillini? Siamo in anticipo, stavolta! Quando si tratta di divertirsi, eh?»
A parte che
lei era in ritardo e non in anticipo, cosa ne sapeva la sua più amata prof di
ciò che non doveva sapere nessuno? E poi non era lei che, truccata e profumata,
stava uscendo per divertirsi? Ma chiaro! Stava parlando di se stessa: era la
Senigalli in anticipo. Comunque fosse, in mancanza di una risposta, urgeva almeno
un sorrisino stupido tanto per arrivare viva al pianterreno.
Lo specchio le
restituì una gran faccia da scema e con quella riuscì a raggiungere indenne il
pianterreno.
A quel punto?
Certo Cecilia non poteva salutarla cordialmente e proseguire per il seminterrato
come niente fosse. Quell’aria miracolosamente bonaria della Senigalli avrebbe
fatto presto a trasformarsi in quella di un perfetto ufficiale della Gestapo, cosìcchè
se ne uscì anche lei trotterellandole dietro con noncuranza.
Contrariamente
a quanto si aspettava, non la vide dirigersi verso l’uscita ma andare dritta verso
una grande sala. Seguendola con lo sguardo per essere sicura che non tornasse,
buttò l’occhio sullo stanzone e ne rimase sbalordita dalla vastità e dal gusto
nell’arredamento. Corrispondeva perfettamente alla descrizione fattane dalle
quattro compagne in camera: tende carta da zucchero, fiori gialli, faretti sul
soffitto...doveva proprio essere quello lo spazio delle animazioni serali.
Due camerieri
in piedi sulle sedie sembravano intenti a sistemare qualche festone appeso da
lampadario a lampadario. In un gran striscione si leggeva ‘Benvenuti!’. Si
augurò che almeno per l’indomani sera tutto sarebbe stato pronto per la loro
prima serata ‘ufficiale’ di divertimento. Forse l’Artusi, non volendo dire
peste e corna degli albergatori, si era risparmiata di informarli di qualche
disguido con i preparativi. Era evidente che la Senigalli, prima di andare
verso la sua ignota destinazione, era passata di lì per dare una controllatina.
Certo che la stanza era già bella abbastanza, che cosa poteva interessare un
festone in più o in meno. Magari non si erano capiti bene o forse chissà, si
era rotto lo stereo. Non era giusto però che a rimetterci dovessero essere i ragazzi
e soprattutto che a loro non fosse stata data alcuna spiegazione.
Ritornò
all’ascensore velocemente perché il contrattempo le aveva fatto perdere altri
minuti preziosi e pigiò nervosamente il pulsante per chiamarlo. Restò in attesa
alcuni interminabili secondi e finalmente questo arrivò.
Ore otto e
trentotto. Avrebbe incrociato Raffaella, non poteva essere diversamente.
Ed invece si
sbagliava ancora una volta: il suo destino era evidentemente quello di
trascorrere la serata con la sua prof del cuore.
«Fillini!
Ancora insieme, sarà perché ci vogliamo tanto bene, no?» Senigalli era entrata
dopo di lei e, quando Cecilia se la ritrovò davanti ancora una volta mentre le
porte dell’ascensore si chiudevano, pensò seriamente a qualche maledizione del
Cielo.
La
professoressa di scienze non era stata per niente carina a dirle quella cosa.
Forse non aveva mai dimenticato certe risposte sincere dell’alunna Fillini lo
scorso anno o, peggio, certe sue domande fin troppo dirette. Ma ora Cecilia sapeva
di non esserne più capace: era cambiata, l’avevano detto anche le sue compagne,
addirittura Silvio l’aveva notato! L’unica a non essersene accorta restava solo
quella sua insegnante tutta d’un pezzo, un po’incline a vedere le persone con
l’idea che se n’era fatta la prima volta.
La Cecilia
d’un tempo, quella che non mentiva e che degli altri non aveva paura, sembrò
risorgere per un attimo nei suoi pensieri. Sulla punta della lingua aveva infatti
almeno quattro rispostine niente male a quella sua provocazione gratuita, ma lì
restarono e non si mossero.
«Non dirmi che
ti sei dimenticata in stanza la borsetta?» continuò la Senigalli per nulla
sospettosa, come se a quell’ora l’andare a spasso per l’albergo con la borsetta
fosse la cosa più normale del mondo.
«Sì, già, la
borsetta con il cellulare e tutto il resto!» rispose Cecilia stando a quel
gioco che non capiva. Ma convinceva la prof e questo bastava.
«Pensa un po’
che me la sono dimenticata anch’io» aggiunse insolitamente più umana. Durò un attimo,
poi tornò quella di sempre «Lo sai che il cellulare devi spegnerlo, vero?»
«Sì, sì,
certo» rispose Cecilia meccanicamente, mentre tutte le sue energie erano in
piena mobilitazione: perché la prof non le chiedeva ancora nulla su quei suoi
movimenti in giro per l’albergo quando era stato stabilito che dopo cena i
ragazzi avrebbero dovuto restare nelle loro camere?
«Non si
preoccupi lo tengo sempre chiuso» si affrettò ad aggiungere Cecilia.
Mentre si
stava alambiccando il cervello, il malefico aggeggio in questione decise
proprio in quell’istante di segnalare la sua presenza con un delizioso bip bip. Possibile che ogni qualvolta
accennasse ad una bugia, c’era subito una gran brutta figura in agguato, pronta
a farla sentire un’emerita deficiente? Chiunque fosse stato ad inviarle quel
messaggio avrebbe dovuto sentire un fischio perforante alle orecchie.
«Ah» fece
Cecilia dopo un attimo di esitazione «Il cellulare ce l’avevo già in tasca! Che
sciocca...»
«In tasca e
aperto, si dà il caso. Che non senta cellulari che suonano oltre le otto e
quarantacinque. Mi pareva fosse scritto chiaramente sul foglio che vi abbiamo
consegnato questo pomeriggio!» Ringhiò la Senigalli, picchiettando un dito
sull’orologio da polso. Cecilia avrebbe voluto chiedere lumi a proposito di
queste disposizioni scritte di cui non sapeva nulla, ma credette di essersi
cimentata sufficientemente nel ruolo dell’imbecille in quei sette minuti di
passeggiate in ascensore. Non approfondì quindi, anche perché la professoressa
le aveva appena annunciato una cosa alquanto allarmante. Ore otto e quarantacinque
aveva detto e ciò bastò a mettere tutto il resto in secondo piano. Il suo ritardo
iniziava ad essere a quel punto veramente eccessivo.
La
professoressa di scienze uscì al primo piano dove stava la sua stanza e
Cecilia, dopo averla cordialmente salutata, non fece a tempo ad invertire la
rotta e dovette proseguire per il secondo. Si sarebbe trovata al punto di
partenza. E il terrore non sarebbe stato più di trovare Raffaella, bensì
Annalisa che sarebbe dovuta arrivare per quarta. E se avesse trovato Silvio che
occupava nella lista il quinto posto?
Quando
l’ascensore si aprì e non gli si parò davanti né Raffaella, né Annalisa, né
tanto meno Silvio, il suo sollievo fu immenso. Sai che bello cominciare a rispondere
a domande del tipo: allora ti sei persa? E dove sei finita? Nelle cucine o in
lavanderia? In risposta avrebbe dovuto raccontare di sua sorella che l’aveva
trattenuta al telefono perché voleva Cenerentola e poi della prof, della
borsetta, del cellulare.... Era meglio cominciare subito a congegnare una
storia migliore se non voleva farsi prendere in giro per il resto della sua
vita.
Aspettò che
l’ascensore si richiudesse senza nemmeno il coraggio di uscire e guardare se il
corridoio fosse vuoto. Quando le porte si richiusero uscì dall’apnea, pigiò il
pulsante del seminterrato ed attese un tempo infinito prima di arrivare
finalmente a destinazione con la paura di incontrare chissà chi sul suo
percorso che le facesse fare qualche altro bel giro turistico.
Una volta
arrivata si sentì rinascere ma il suo entusiasmo durò un secondo. Quando le
porte le si richiusero dietro e lei si trovò sola, in quel perfetto silenzio,
ad affrontare le tenebre, ebbe l’impressione che l’ascensore risalisse portando
con sé ogni sua spavalderia.
Problemi zero,
si era detta.
In fondo
l’avevano avvertita che laggiù era buio. Potevano anche dirle che era buio
pesto, già che c’erano. Ma forse erano i suoi occhi che dovevano abituarsi
all’oscurità e poi, che paura poteva avere? C’erano Raffaella, Annalisa e forse
anche Silvio ad aspettarla laggiù, poco distante da qualche parte. Se non si
spicciava l’avrebbe raggiunta anche Martino col quinto scaglione. Sai che
bello, lei e Martino da soli in quel buio. Meglio che con Silvio comunque...
Guardò l’ora e
il cellulare rischiarò per brevi istanti quel buio opprimente: le otto e
cinquantuno.
Sempre
premendo lo zero, Cecilia illuminò l’ambiente per un’altra manciata di secondi.
Non aveva mai
notato che la luce del cellulare fosse così lugubre e, dopo diversi metri in
cui ebbe l’impressione di sentirsi tutt’altro che intrepida, riuscì ad
individuare la prima svolta a destra che le aveva descritto Matilde.
Ma era davvero
la prima o ne aveva passata già un’altra? Calma e sangue freddo, si disse,
nella peggiore delle ipotesi sarebbe finita da qualche altra parte, magari
proprio in lavanderia. Silvio comunque non avrebbe mai dovuto saperlo.
Tornò indietro
per verificare che non ci fossero altri corridoi laterali pigiando ancora una
volta il tasto sul cellulare. Si sentiva un po’come la piccola fiammiferaia.
Quanto sarebbe durata la sua scatola di fiammiferi tecnologica? Se l’avesse
saputo prima avrebbe sicuramente controllato la batteria!
Finalmente
imboccò il lungo corridoio, ora bisognava solo raggiungerne la fine. Problemi
zero, si diceva. E lei era assolutamente esagerata ad avere quella fifa boia,
della quale non avrebbe mai fatto parola con nessuno.
E pensare che
sarebbe stato così facile con la luce accesa. Ma la consegna era chiara: luce
spenta fino alle nove in punto e così doveva essere. Mantenere le consegne,
mantenere le promesse, la parola data, gli impegni, gli ideali: era come se ci
fosse dentro di lei un angelo o un diavolo che esigeva da lei un rigore
assoluto. Che amava ed odiava. Ora però la storia della luce iniziava ad
apparirle come un accorgimento un po’eccessivo: come potevano al piano di sopra
accorgersi che la luce laggiù era accesa? Fu quasi sul punto di porre fine a
quella tortura tanto che, nel momento in cui passò davanti ad una delle lucette
rosse che segnalavano l’interruttore, ebbe come l’impressione di sentire una
vocina che gridava premimi, premimi.
Fu bravissima perché riuscì ancora ad ignorarla.
Mancavano
esattamente quattro minuti all’ora X.
Alle nove
infatti, secondo i patti, avrebbe potuto accendere la luce. E se il suo orologio
fosse stato un po’in anticipo per l’occasione? In anticipo, in ritardo, con
quell’ora che aveva già trattato come fosse un elastico ci aveva fatto già una
volta una magra figura. E poi i patti erano patti, punto e basta.
Così, nel buio
rischiarato a tratti da quella lucetta spettrale, con l’interruttore a portata
di mano che non si sa perché andava tenuto spento, passò un’interminabile sequenza
di porte, ognuna delle quali affiancata da un cartellino con la denominazione
scritta in due lingue. Sala riunioni, magazzino, biblioteca, ping-pong, sauna,
info-point, ma quanti locali c’erano mai là sotto! Sostanzialmente il problema
era che, a colpi di cellulare, quell’ultima porta sembrava non sbucare mai.
Arrivarono le
nove e anche il turno di Martino. Eppure non s’era visto, lui, come gli altri.
Che fosse stato costretto a qualche bella passeggiata in su e in giù con la
Senigalli?
Qualunque cosa
fosse accaduta, lei ora si trovava proprio davanti all’ultima porta e ne cercava
a tentoni la maniglia.
Fece per
aprire. La porta non si muoveva, allora ci mise maggior forza. Niente.
«Ehi, ragazzi!
Raffaella...Annalisa...sono arrivata, mi aprite?» bisbigliò.
Silenzio.
Quelle carogne
l’avevano chiusa fuori per punirla del ritardo, era evidente. Ritardo
esagerato, a dirla tutta, imperdonabile. In altre parole non erano carogne per
niente, era lei che avrebbe dovuto scusarsi per aver disatteso a quel modo le
loro aspettative: doveva assolutamente mettere a frutto tutta la sua fervida
fantasia per inventare qualcosa di credibile. Che servisse a qualcosa, almeno
ogni tanto! Magari con l’allenamento avrebbe potuto fare qualche progresso in
quell’arte della menzogna nella quale aveva dimostrato, in quella giornata di
intense esercitazioni, così poca attitudine. In fondo era solo agli inizi: se
lei ci stava provando da appena un giorno, in classe sua c’era gente che si
stava allenando da almeno tredici anni. Dodici per l’esattezza, visto che prima
non sapevano parlare.
Si sedette sul
pavimento ad attendere davanti a quella porta chiusa, al buio. Prima o poi
sarebbe arrivato Martino e qualcuno avrebbe dovuto pur aprirle.
Al buio? E
perché al buio? Le nove erano trascorse da ben quattro minuti ed ora la luce si
poteva accendere, così era stato deciso attorno al tavolo.
In un attimo
l’atteso piccolo gesto sull’interruttore tolse in un colpo solo a quel corridoio
ogni mistero, brivido e fascino e lo riportò alla banalità di un ambiente reale
del tutto inoffensivo con i quadretti di montagna e le composizioni di fiori
secchi appesi sul muro.
L’unica
inquietudine restava dietro la porta.
Poi si sentì
irrimediabilmente cretina.
La porta che
cercava, l’ultima, davvero l’ultima, era dall’altra parte del corridoio. Si era
clamorosamente sbagliata e la porta che aveva tentato di scardinare era quella
della lavanderia. Ora con la luce accesa lo si poteva leggere a fianco, in
italiano e tedesco. Silvio non avrebbe mai dovuto saperlo.
Un orsetto
seduto sullo scivolo nella simpatica insegna appesa alla porta l’accolse con un
sorriso. Sullo scivolo una scritta in tedesco: Kindergarten e, sotto, la traduzione: Sala bambini.
Cecilia si sentì leggera
come una libellula mentre apriva la porta senza sforzo: l’avventura era finita
e iniziava il divertimento! E vai!
Il
‘Kindergarten’ l’accolse con un buio inatteso che la ferì come la peggiore
delle offese. Trovò l’interruttore senza sforzo e timorosa lo pigiò facendo
luce al suo interno come se stavolta fosse il vederci chiaro più inquietante
del buio stesso.
«
Raffaella...»
Nessuno.
Guardò l’ora: le nove e dieci.
«...Martino...»
Chi altro
doveva arrivare dopo Martino? Non se lo ricordava, non ricordava tutta la
lista, non pensava potesse servire.
Non serviva
infatti: in quella stanza non era mai arrivato nessuno e forse mai nessuno
sarebbe arrivato.
Era inutile
sperare che si fossero nascosti da qualche parte. Le sembrò di ripetere una
scena già vista e ricordò quando, appena arrivata in camera sua, era uscita dal
bagno e si era precipitata in quell’affannosa patetica ricerca, dentro
l’armadio...sotto il letto...Nonostante ciò non riuscì a trattenersi e, dopo un
attimo di esitazione, buttò l’occhio dentro la casetta dei Tre Porcellini.
Perché la casetta c’era sul serio, non se l’erano inventata. Si guardò ancora
intorno: i nanetti erano al completo, grandi come bambini, accanto agli
scaffali ben forniti di libretti illustrati. E sul muro dipinto pure Cenerentola
c’era. E alta due metri, come puntualmente descritto, con una sontuosa carrozza
d’oro al suo fianco.
Tutto vero. A parte quella loro fantastica festa.
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